lunedì 31 dicembre 2012

Auguri!


Un sincero augurio

(a mia figlia, innanzitutto, perché il futuro sia per lei sempre promettente; ai miei eroici lettori, senza i quali questo blog non esisterebbe; ai miei cari e ai miei amici che mi sopportano; a tutti quanti; e, per finire, a me)

Con la mezzanotte mi auguro che vadano in cocci tutti i nostri timori sul futuro prossimo. Mi auguro che chi sta subendo minacce di morte, torture e sopraffazioni, riceva giustizia, veda puniti i suoi persecutori e possa vivere in pace, come vuole. Mi auguro che chi crede in Dio, in qualsiasi Dio, possa continuare a farlo senza il timore di essere arrestato o ucciso per questo; e chi è scettico o chi non crede mi auguro che possa continuare ad esprimere il proprio pensiero senza che i credenti lo censurino o, peggio, lo perseguitino come infedele. Mi auguro che tutti coloro che non hanno mangiato abbastanza, che non hanno avuto da mangiare per i propri figli, che si sono ammalati o che hanno avuto un malato in famiglia non perdano la speranza di vedere risolti i propri problemi. Mi auguro che i violenti paghino per i loro atti, ma anche che chi ha subito una violenza trovi il coraggio di proseguire a vivere e a cercare la propria felicità, ma soprattutto trovi la forza di continuare a credere nella libertà.



Con la mezzanotte mi auguro che vadano in frantumi le profezie di sciagure, di fine del mondo, di sventure. E che tutti coloro che navigano in internet abbiano un po’ più di fiducia nella ragione e nella sensibilità dell’uomo e un po’ meno nella potenza e nell’incanto dei mezzi tecnologici; mi auguro che credano un po’ meno a tutto ciò che viene messo in rete e un po’ più nella ragione critica, nella lettura, nella riflessione, nello studio, nella parola, nell’arte, nella musica, nella natura. Anche solo un po’ di più.

Un po’ di più, appunto. Poiché l’anno appena trascorso è stato molto difficile per tutti, basterebbe davvero poco di più per essere più sorridenti e più felici. Auguro a tutti di trovare quel “poco di più”.

Buon 2013!

“Se distruggiamo ogni piacere nel corso della vita, quale specie di futuro ci prepareremo? Se non si sa godere per il ritorno della primavera, come faremo ad essere felici in un’utopia che ci risparmi il lavoro? In che modo sfrutteremo il tempo libero che le macchine ci largiranno? […] Sostenendo che nulla deve essere ammirato tranne l’acciaio e il cemento armato, si rende più probabile una situazione in cui gli esseri umani non avranno altro sfogo per le loro superflue energie se non l’odio e l’adorazione di un qualche duce” (George Orwell, Elogio del rospo, in G. Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Milano, RCS, 2010, p. 286).


George Orwell

sabato 29 dicembre 2012

In piazza contro Assad?


Chi scende in piazza per i Siriani?

Assad come “Che” Guevara?



Qualche anno fa, leggendo il volumetto di Alvaro Vargas Llosa, Il mito Che Guevara e il futuro della libertà (tr. it. Torino, Lindau, 2007) mi sono chiesto perché in Europa la cultura di sinistra rimanga sempre profondamente affascinata dalle personalità dei tiranni sanguinari, come furono appunto Ernesto “Che” Guevara, oppure, molto prima, Lenin o Stalin, o ancora, più o meno contemporaneamente all’eroe sudamericano, Mao Tse-tung o Pol Pot. L’autore del libretto (figlio del noto scrittore peruviano Mario Vargas Llosa) afferma che la tirannia ha numerosi volti, alcuni di destra, alcuni di sinistra; che talvolta le innumerevoli forme assunte dall’oppressione si rivestono di richiami alla giustizia sociale, mentre talaltra di richiami alla sicurezza; che sempre tali richiami servono per abbellire l’ideologia o il regime e ingannare così gli individui, convincendoli a sostenerli. Ma in ogni caso, secondo Alvaro Vargas Llosa, chi sostiene queste tirannie si sottomette ad una “servitù volontaria”, conseguenza di una debolezza della mente tipica di quegli uomini che tendono a seguire il messaggio più accattivante e che più li lusinga: ogni tiranno, conclude l’autore citando il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de la Boetie (1530-1563), è tale perché il potere gli viene concesso da moltitudini che credono in lui e che lo venerano come una semi-divinità. “Riconoscere e denunciare il subdolo meccanismo psicologico per mezzo del quale i nemici della libertà cercano di indurci ad accettare una servitù volontaria è uno dei compiti più urgenti del nostro tempo. Saper distinguere la verità dalle più o meno raffinate imposture che proclamano la liberazione dell’umanità dal dispotismo, dall’ingiustizia o dalla fame è il primo passo verso una società libera. La liberazione dell’individuo è in primo luogo una liberazione della mente” (A. Vargas Llosa, op. cit., pp. 7-8).
Alvaro Vargas Llosa

Il caso di “Che” Guevara è emblematico. Era un sanguinario, violento e tirannico, un uomo che provava piacere a distruggere le vite di coloro che giudicava di intralcio per il raggiungimento dei suoi scopi, incapace di usare il potere per costruire sviluppo, pace e libertà. Un uomo che, come tanti “caudillos” latino-americani, ha lasciato dietro di sé corpi trucidati, lunghe scie di sangue, dozzine di cadaveri: un colpo di pistola alla tempia era per lui il modo più giusto per dirimere le questioni politiche e convincere gli esitanti. “Che” Guevara assassinò personalmente o supervisionò l’esecuzione, dopo un processo sommario, di decine e decine di persone, alcuni erano nemici della rivoluzione cubana, altri semplici sospetti, altri ancora sventurati che si erano trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato (cfr. ivi, p. 19). Quando fu posto da Castro alla direzione della prigione di La Cabaña, nella prima metà del 1959, ebbe modo di manifestare appieno quanto fosse spietato, diventando una vera e propria “macchina assassina a sangue freddo”: in quella prigione in sei mesi vennero giustiziati dai 200 ai 700 oppositori; la condanna era in genere eseguita di notte, da lunedì a venerdì, subito dopo un veloce processo la cui sentenza veniva immediatamente confermata dalla corte d’appello. Alcune fonti affermano che i trucidati siano stati molti di più, forse addirittura duemila. Nello stesso anno il “Che” prese parte alla costituzione del G-2, una polizia politica modellata sulla Čeka sovietica, di cui divenne capo Ramiro Valdes, fedelissimo di Guevara; poi assunse la direzione del G-6, l’organo incaricato dell’indottrinamento ideologico delle forze armate. I due organismi, praticamente entrambi controllati dal “Che”, furono i pilastri dello Stato di polizia eretto dal comunismo cubano. 

La fortezza di La Cabana: divenne una orrenda prigione cubana
diretta nel 1959 dal "Che"
La fallita invasione della Baia dei Porci, realizzata con il sostegno degli Stati Uniti nell’aprile del 1961, fu l’occasione per verificare l’efficienza del sistema di repressione creato da Guevara e da Castro: decine di migliaia di cubani furono rastrellati e fu ordinata una nuova serie di esecuzioni capitali (cfr. ivi, pp. 24-25). Il “Che”, infine, fu il più solerte organizzatore-edificatore dei campi di concentramento cubani, come quello di Guanahacabibes, attivo già alla fine del 1960. Dal 1965 in poi, tutta la provincia di Camaguey è diventata meta di confino e lavori forzati per dissidenti, omosessuali, vittime dell’AIDS, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri indesiderabili. Così Vargas Llosa descrive la terribile odissea dei confinati: “Stipati su autobus e autocarri, questi ‘rifiuti’ venivano trasportati sotto la minaccia delle armi in campi di concentramento sul modello di Guanahacabibes. Alcuni non avrebbero mai più fatto ritorno, altri sarebbero stati seviziati, picchiati o mutilati. Quasi tutti sarebbero rimasti traumatizzati per il resto della loro vita, come nel 1984 ha mostrato a tutto il mondo lo straziante documentario Cattiva condotta” (ivi, pp. 26-27).
Ernesto "Che" Guevara (1928-1967) in una delle sue
sprezzanti "pose"

Potrei continuare ancora a citare l’interessante volume di Vargas Llosa, ad esempio ricordando quanto il “Che” fosse attratto dalle proprietà altrui e fino a che punto si spinse per giustificare la sua visione di rivoluzione come furto puro e semplice, ruberia, ladrocinio. Il “Che” fu un uomo la cui attività politica è stata ispirata al puro esercizio del potere e mossa da un brutale istinto predatorio (ivi, pp. 24-25). Eppure non c’è figura di rivoluzionario che in Occidente goda di più fortuna di quella del “Che”. La sua immagine è diventata addirittura un’icona del consumismo di massa: stampata su magliette, felpe, bandane, tazze da tè essa è per moltissimi giovani occidentali (europei in primo luogo, soprattutto italiani) il simbolo della lotta contro la sopraffazione, il simbolo della ribellione contro l’autoritarismo in nome della libertà dei popoli oppressi della Terra. E, naturalmente, personaggi e divi dello star system non mancano di farsi fotografare con indosso la sua immagine, sapendo quanta popolarità conquisteranno tra i giovanissimi: dal musicista Carlos Santana agli attori Robert Redford, Antonio Banderas, Benicio del Toro; dai calciatori Diego Armando Maradona e Thierry Henry a giornalisti come Gianni Minà. Sono moltissimi i volti noti della musica, del cinema e della tv che, citando il “Che”, interpretandone la vita o indossandone la maglietta, hanno contribuito a trasformare un terrificante tiranno in un eroe romantico, un despota sanguinario in un mito “buonista”.

                      Maradona esibisce il tatuaggio che ritrae il "Che"                                  
Carlos Santana esibisce la T-shirt
con il "Che"
Si è mai visto qualcuno, in Occidente, scendere in piazza per denunciare i crimini di “Che” Guevara negli anni Sessanta e Settanta? Analogamente, si è mai visto qualcuno in quegli anni scendere in piazza per denunciare i crimini della rivoluzione cinese e di quella “culturale” in particolare? E, ancora, si è mai visto qualcuno, negli anni Ottanta, scendere in piazza per denunciare l’occupazione dell’Afghanistan da parte delle truppe sovietiche (occupazione che durò dal 1979 al 1988: il tempo per manifestare ci sarebbe stato…)? No, non si è mai visto nessuno. Eppure manifestazioni contro il militarismo statunitense all’epoca della guerra in Vietnam ve ne furono. E ugualmente vi sono state manifestazioni contro la Nato e contro i suoi interventi degli ultimi vent’anni, in Bosnia (1994-’95), in Afghanistan (2003), in Iraq (2004), in Libia (2011). La Nato è stata forse l’obiettivo più contestato nelle manifestazioni del Vecchio continente dell’ultimo ventennio. In genere si è trattato di manifestazioni organizzate da partiti o movimenti di sinistra, guidate da leader di sinistra più o meno radicali ma sempre accomunati dagli stessi messaggi: “pace senza se e senza ma”, libertà dai dispotismi, lotta contro l’imperialismo nordamericano.

Il dittatore siriano Bashar al-Assad

Bene. Allora come mai oggi nessuno di questi partiti, nessuno di questi leader organizza una manifestazione, uno sciopero, o semplicemente pronuncia ferme parole di condanna contro il sanguinario dittatore siriano Bashar al-Assad? Come ha illustrato il Rapporto di Amnesty International, da due anni, da quando è iniziata la cosiddetta “primavera araba”, il regime di Damasco ha usato, per reprimere le sollevazioni, carri armati e aviazione in zone abitate dai civili, ha arrestato e torturato migliaia di manifestanti, ha compiuto esecuzioni capitali senza neppure passare attraverso un processo e, di recente, si sospetta che abbia utilizzato armi chimiche contro i manifestanti. In due anni gli ordini di Assad hanno sterminato oltre 45.000 civili, compresi vecchi, donne e bambini. Certo, come ha spiegato alcune settimane fa Franco Venturini (cfr. il suo articolo, Massacri in Siria e (colpevole) indifferenza, Corriere della sera, 12.10.2012), la guerra civile siriana non è amata da nessuno e nelle segrete stanze della diplomazia tutti ne temono l’esito: la Russia, che per lungo tempo ha sostenuto Assad, teme che la vittoria dei ribelli possa significare un’espansione dello jihadismo nel Caucaso; gli Stati Uniti, che sono contro il regime siriano, temono anch’essi la vittoria dei qaedisti e temono che un intervento militare di Washington possa destabilizzare il Medio Oriente, come è già accaduto in passato (ad esempio in Libano); la Cina, che ha tutto l’interesse a far logorare i suoi avversari occidentali, sta alla finestra a guardare come evolvono gli eventi; la Turchia, che teme l’insurrezione del Kurdistan, non desidera di sicuro un’escalation della guerra civile né interventi esterni; l’Europa, infine, che si sforza di unificare le varie anime dei ribelli, non ha identità di vedute sulle questioni di politica estera, perciò non è in grado di programmare alcun intervento. Questi veti e timori sovrapposti sembrano essere una condanna a morte per altre migliaia di civili siriani, perché finché nessuno si deciderà ad intervenire altre persone moriranno, sterminate dall’esercito di Assad o seviziate dalla sua polizia.

Le date (fino a metà 2012) degli episodi più noti
della mattanza in corso in Siria
Ma il punto del mio intervento di oggi non è la denuncia dell’impotenza o della complicità della politica degli Stati; non è svelare quali interessi vi siano dietro le scelte compiute da ciascuno di essi, ma denunciare lo strabismo, anch’esso complice, di quelle forze politiche che sarebbero in grado di spingere e di condizionare le scelte dei propri governi ma che, pur vedendo quello che sta succedendo in Siria, non solo non si muovono, ma non si pronunciano neppure. Non si possono invocare, come scuse della loro inazione, l’ignoranza o la carenza di informazione: queste potevano forse valere per i crimini di Stalin, per quelli di Mao e per quelli del “Che” Guevara, delitti in parte ignoti, in parte ignorati nel momento in cui si stavano verificando. Oggi queste scuse, già pietose allora, non valgono più: sappiamo tutto quel che c’è da sapere a proposito degli eventi siriani, e sappiamo quali rischi sta correndo chi è sopravvissuto ai trascorsi massacri. Ripeto la domanda: allora perché in Occidente, in Europa, in Italia nessun partito o movimento di sinistra propone una serie di iniziative e di manifestazioni per fare pressioni sui propri governi, per rendere l’opinione pubblica consapevole di quanto sta accadendo?


Una risposta possibile ce la fornisce proprio “Che” Guevara. Vargas Llosa, nel volumetto che ho citato, ricorda che quando il “Che” venne acciuffato dalla CIA in Bolivia, uno degli agenti che lo interrogò dopo la cattura gli chiese cosa avesse da dire delle centinaia di esecuzioni di La Cabaña; ebbene, il “Che” rispose: “erano tutti agenti della CIA” (A. Vargas Llosa, op. cit., p. 22). Mutatis mutandis le parole del “Che” corrispondono alla giustificazione esibita, dal 1917 in poi, da tutti i dittatori sanguinari che si ispirano ad un ideale rivoluzionario “di sinistra”: essere in guerra contro i capitalisti nordamericani, presentarsi come i vendicatori dei popoli affamati dall’imperialismo statunitense. Questa etichetta, secondo quei dittatori, basta per ottenere il sostegno dalle moltitudini degli altri paesi e per far dimenticare del tutto i propri errori e i propri crimini. E Assad, com’è noto, è a capo di un governo che da decenni è in guerra con Israele e avverso agli Stati Uniti, un governo che per anni ha sostenuto politicamente e alimentato finanziariamente reti di terroristi, dagli hezbollah ai salafiti, dai talebani ai qaedisti. Come “Che” Guevara sapeva bene nel 1967, oggi anche Bashar al-Assad sa bene che per essere sostenuto da alcune forze politiche operanti in Europa è sufficiente essere antiamericani, anche se si massacrano civili inermi, anche se la propria ideologia, come ho spiegato nel post del 2 ottobre scorso, è più vicina al nazismo che al socialismo. Assad sa bene che in Europa essere antiamericani è più popolare che essere liberali; sa bene che per non pochi politici europei, e italiani soprattutto, è molto meglio essere contro la Casa Bianca che salvare migliaia di civili innocenti.

lunedì 24 dicembre 2012

Sanità e istruzione: la crisi del Welfare State



È passato quasi un mese dal mio ultimo post. Davvero troppo per un blog, me ne rendo conto. Del resto ogni volta che preparo un articolo sono solito informarmi, leggere, pensare e scrivere con attenzione. Non conosco un altro modo per preparare l’esposizione delle mie opinioni. Leggere, pensare e scrivere con attenzione sono tutte attività che richiedono tempo. E il tempo è appunto ciò che mi è mancato nelle ultime settimane. Vorrei poter promettere ai miei 25 lettori che non interromperò più così a lungo la vita di questo blog, ma non posso farlo: so che accadrà ancora, quando, imprevedibilmente, l’intersecarsi di lavoro e impegni personali mi ruberanno ancora il tempo. Perciò chiedo di nuovo perdono e pazienza a chi vuole seguirmi: ora sono qui, domani e nei prossimi giorni sarò ancora qui. Ma oltre l’orizzonte di qualche dì non spingo le mie previsioni. Se questa incertezza non vi disturba troppo, sapete dove trovarmi. Approfitto di questa premessa al post di oggi per augurare a tutti i lettori un sereno Natale.



Il Welfare State è in crisi! Viva il Welfare!



Franca Maino è una ricercatrice del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università di Milano. Dirige un gruppo di giovanissimi ricercatori che lavorano nel progetto “Percorsi di secondo welfare” (www.secondowelfare.it), nato nel 2011 da un’iniziativa del Centro di ricerca Luigi Einaudi di Torino e finanziato dal Corriere della sera, dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione Cariplo, dalla Fondazione con il Sud, dall’Ania e da alcune aziende italiane che da tempo investono nell’assistenza sociale (Luxottica e KME Group).
Franca Maino

Di recente la Maino ha pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista Il Mulino, attualmente diretta dall’economista Michele Salvati, da decenni rappresentante di un think tank laico e cattolico di segno progressista. L’articolo, comparso sul numero di ottobre della rivista, si intitola Un secondo Welfare per i nuovi bisogni (Il Mulino, n. 5, settembre-ottobre 2012, pp. 833-841). L’autrice sostiene che dopo “l’età dell’oro” del Welfare, verificatasi in Europa tra anni Cinquanta e Sessanta, a partire dalla crisi degli anni Settanta il Welfare State ha iniziato la sua parabola discendente in tutti paesi del continente, rivelandosi incapace di sostenere i nuovi bisogni e i nuovi rischi sociali, nonché i profondi cambiamenti demografici, economici, sociali e culturali che hanno accompagnato gli ultimi decenni. Di fronte a queste nuove sfide, le spese pubbliche sono divenute insostenibili, e nel frattempo il gettito fiscale che le alimentava si è progressivamente ridotto per effetto dell’arretramento della forza economica delle nazioni europee, incapaci di resistere alla concorrenza dei paesi che negli ultimi vent’anni sono stati avvantaggiati dalla globalizzazione: Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa (i cosiddetti paesi del gruppo BRICS).

I Paesi del gruppo BRICS

Di fronte a questa crisi, alcuni paesi sono riusciti a correggere la spesa pubblica, ricalibrandola e rivedendola, ma soprattutto seguendo rigorose politiche di bilancio in modo da mantenere in vita un Welfare “universalistico” e molto generoso: è il caso dei paesi scandinavi. Altri paesi non sono riusciti ad avviare manovre strutturali di correzione, così si sono trovati negli ultimi anni con una spesa pubblica fuori controllo. In queste nazioni, l’invecchiamento della popolazione e il drammatico calo del Pil hanno messo in crisi il Welfare, non solo perché la spesa pubblica non è stata più sostenuta da adeguati investimenti, non solo perché non si sono avviate politiche di rigoroso risanamento contabile, ma anche perché essa è quasi interamente assorbita dalle pensioni, mentre molto scarsi sono gli investimenti nelle cosiddette politiche di “nuovo Welfare” (ammortizzatori sociali per la disoccupazione, sostegno alla maternità, assistenza ai disabili, sanità, istruzione ecc.). In tal modo, in questi paesi si è creato anche un problema di forte disuguaglianza: alcuni settori della popolazione (quelli più anziani e quelli occupati in modo più stabile) sono molto tutelati; altri (quelli più giovani e quelli occupati in lavori precari) non lo sono quasi per niente. L’Italia è tra questi paesi.


Che fare? Di fronte al rischio di povertà che in Italia minaccia due famiglie su tre, di fronte alla disoccupazione giovanile, di fronte alla necessità di provvedere ad una crescente spesa sanitaria, causata dall’invecchiamento della popolazione e dal calo tendenziale del gettito fiscale (anche se si recuperasse l’evasione), infine di fronte al rischio che istruzione e formazione si impoveriscano sempre più per la riduzione delle risorse, chi deve farsi carico dei nuovi rischi e delle maggiori spese che ne deriveranno?

La risposta fornita dalla Maino, e sulla quale sta lavorando il gruppo di ricerca da lei diretto, è molto chiara: se non vogliamo veder naufragare completamente i settori della previdenza, dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale in genere, se non vogliamo veder fallire completamente gli Stati con la loro capacità di intervento sociale, dobbiamo costruire un “secondo Welfare”, in cui accanto all’intervento pubblico si preveda la possibilità di intervento per soggetti privati: “un nuovo Welfare mix, caratterizzato dall’ingresso nell’arena del Welfare di soggetti non pubblici come fondazioni bancarie e di comunità, aziende, sindacati, associazioni datoriali, imprese sociali, assicurazioni, rappresentanti del terzo settore e volontariato” (art. cit., p. 835).

Un mix, quindi, in cui a farsi carico della spesa pubblica non sia solo lo Stato, come è accaduto nel “primo Welfare”, ma anche privati che, all’interno di norme stabilite da apposite leggi, potrebbero integrare gli interventi pubblici laddove essi fossero insufficienti o assenti. È questo, appunto, il “secondo Welfare”. Sarebbe un Welfare integrativo, ed anche più flessibile perché darebbe spazio a soggetti che sono più collegati al territorio, quindi più in grado di adattarsi a specifiche necessità locali: la presenza di anziani non autosufficienti o di disabili bisognosi di particolare assistenza; la presenza di scuole popolate da molti studenti extracomunitari o con problematiche particolari; l’elevato tasso di malati affetti da una patologia specifica, e così via. Tutte situazioni per le quali è sempre difficile programmare gli interventi dall’alto e difficilissimo rivederli una volta che l’emergenza dovesse cessare. “Partire dai bisogni e dalle possibili soluzioni, per poi coinvolgere i finanziatori”: questo il motto a cui dovrebbe ispirarsi il secondo Welfare.
Maurizio Ferrera

La questione venne affrontata già due anni fa da due articoli, pubblicati dal Corriere della sera, che aprirono il dibattito sul secondo Welfare: si tratta dell’intervento di Dario Di Vico, Il Welfare dei privati che sostituisce lo Stato (Corriere della sera, 15 giugno 2010), e di quello di Maurizio Ferrera, Per il Welfare serve più spesa (dei privati) (Corriere della sera, 16 giugno 2010). Entrambi gli articoli descrivono una serie di esperienze dove il mix di cui parla la Maino sta funzionando: dai fondi integrativi pensionistici creati da aziende per i propri dipendenti, alle Società di Mutuo Soccorso (come la “Cesare Pozzo” di Milano) che erogano sussidi sanitari ai propri iscritti; dal fondo sanitario previsto nel contratto privato dei dipendenti del settore alimentare, all’assistenza sociale prevista in quello dei chimici; dall’housing sociale attuato da alcune fondazioni bancarie nelle province di Crema e Milano, all’inserimento occupazionale per ex carcerati e disabili organizzato da associazioni di volontariato sostenute da Regioni o Comuni. In alcuni paesi europei, come ricorda Ferrera, esempi di interventi come questi sono ormai diventati strutturali e sono tutelati da apposite norme. I passi più significativi fin qui sono stati compiuti dai paesi scandinavi, dalla Gran Bretagna di Tony Blair (e di recente dal progetto della Big Society di Cameron), dalla Germania e dalla Francia paesi, questi ultimi, nei quali la mutualità volontaria è più sviluppata che nei paesi mediterranei. Ferrera (filosofo di formazione, attualmente docente di Politiche Sociali e del Lavoro presso l’Università di Milano, nonché supervisore scientifico del progetto diretto da Franca Maino) ricorda che resta ancora molto da fare in Europa, perché spesso le iniziative di secondo Welfare sono state ostacolate dalla difesa corporativa di interessi settoriali, oppure fraintese come un tentativo di liquidazione delle politiche di spesa pubblica. Non si tratta di questo, invece, bensì di attribuire a parti della società una frazione di quegli oneri sociali che lo Stato non è più in grado di sopportare. Ferrera ricorda a questo proposito le parole di Ralph Dahrendorf (filosofo e sociologo tedesco molto amato dalla sinistra europea) che negli anni Ottanta affermò: “la condizione economica di molte famiglie consente di cercare un nuovo equilibrio fra prestazioni offerte e finanziate dalla collettività e contributo degli individui e delle loro associazioni”.

Ralph Dahrendorf (1929-2009)

Ha speranza di essere seguita questa strada in Italia? Se giudichiamo dai recenti eventi direi di no o, perlomeno, che sarà arduo, molto arduo anche solo imboccare il percorso normativo che essa richiederebbe. Mi riferisco a due eventi: le reazioni sollevate dalle dichiarazioni sulla Sanità pubblica dell’ex Presidente del Consiglio Monti; l’opposizione-crociata contro il ddl ex Aprea attuata soprattutto dagli studenti (di cui mi sono occupato nel post del 30 novembre).

“La sostenibilità futura dei sistemi sanitari nazionali”, ha dichiarato Mario Monti il 27 novembre scorso, “potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni. La posta in palio è altissima”. Parole che hanno scatenato un terremoto, tanto che Palazzo Chigi ha dovuto rettificare nella serata dello stesso giorno: “Le risorse ci sono, ma per il futuro serve più innovazione” (cfr. ad es.: Monti: “Servizio sanitario nazionale a rischio”, in Repubblica.it, 27/11/2012). Bersani ha subito affermato: “No a una sanità per ricchi!”; e la CGIL a ruota: “Se vuole privatizzare lo dica”; aggiungendo: “Monti vuole affamare la Sanità per poi svenderla!”. Non è stato da meno Antonio Di Pietro che ha strillato: “La sanità pubblica non si tocca! Questo governo sta lentamente smantellando lo Stato sociale!” (cfr. l'articolo sopra citato in Repubblica.it). Non si pensi che queste condanne siano arrivate solo dalla sinistra. La destra estrema, quella di Storace ad esempio, non è stata da meno: “Monti smantella il servizio sanitario”, titolava Il Giornale d’Italia del 27 novembre. E Girolamo Sirchia, che è stato Ministro della Sanità nel secondo governo Berlusconi, ha definito la dichiarazione di Monti “una sparata” che crea solo rabbia e allarme (cfr. il sussidiario.net, 28 novembre 2012). Non sono rimasti in silenzio neppure i “grillini” che, sul blog del loro vate, si sono sfogati con i soliti insulti e le solite bordate populiste (cfr. Full Monti, in Blog di Beppe Grillo del 27 novembre 2012 e giorni successivi).

Le espressioni più usate da tutti i critici di Monti sono state: “grave affermazione”; “inaccettabile”; “si vuole liquidare il Welfare”; “si vuole privatizzare la Sanità e fare arricchire la finanza e i capitalisti” e così via, seguendo un repertorio di slogan ideologici molto diffuso in Italia, questo sì davvero bipartisan perché condiviso da tutte le forze politiche, anche da quelle cosiddette “antisistema” come il movimento di Grillo. Analoghe erano state le reazioni al ddl ex Aprea, nei confronti del quale l’accusa di “privatizzazione” della scuola, del tutto pretestuosa e infondata, è nata in ambienti contigui a quelli di cui sopra. Ma su questo argomento mi sono già espresso.

Cosa accade alle menti degli italiani quando si accenna a riforme che mirano ad integrare il vecchio Welfare con iniziative provenienti dal mondo privato? Accade questo: la tradizionale sfiducia cattolica nei confronti del singolo, unita al pregiudizio marxista nei confronti di tutto ciò che ha a che vedere con l’iniziativa individuale producono una reazione socio-politica capace di generare una sorta di Santa Alleanza. L’obiettivo di questa è la difesa dell’esistente, soprattutto in relazione a tre ambiti: la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, la tutela pubblica sul lavoro. La difesa di questi tre ambiti per gli orfani del marxismo è diventata una sorta di ultima spiaggia nell’eterna sfida contro il "capitalismo affamatore delle plebi"; per il cattolicesimo sociale e statalista è diventata invece l’occasione per ripetere una tradizionale condanna pauperistica, quella contro il denaro che, come dicevano i monaci e gli eretici medievali, va disprezzato perché è lo “sterco del diavolo”. Secondo gli uni e gli altri, denaro, iniziativa privata, intervento del singolo e volontariato non devono trovare alcuno spazio in settori nei quali solo lo Stato ha il diritto di possedere il monopolio esclusivo.

Eppure in altri paesi l’hanno capito. Esiste l’intervento pubblico dello Stato, ma esiste anche il privato-pubblico: volontariato, cooperative, mutue, terzo settore onlus (non a caso denominato “privato-sociale”), fondazioni, aziende che investono nel sociale. Si tratta di realtà che, sebbene create da soggetti privati, producono servizi di pubblica utilità, affiancando o sostituendo le istituzioni dello Stato laddove queste non arrivano, non sono sufficienti o il cui intervento sarebbe troppo oneroso per i contribuenti. Come gli studi di Ferrera e Maino hanno dimostrato, questa è la strada che hanno imboccato in Europa le nazioni più evolute. Lo Stato deve fissare i criteri, certamente, deve esercitare il controllo, deve verificare l’efficacia del servizio erogato; perciò la sua funzione regolatrice non verrebbe mai meno. Ciò che verrebbe ridotto, se si lasciasse spazio a quei soggetti privati, sarebbe l’intervento diretto delle istituzioni pubbliche nell’erogazione del servizio. Riduzione non significa liquidazione, né privatizzazione. E del resto l’idea che solo lo Stato possa garantire equità, efficienza e democrazia è davvero balzana: burocrazia elefantiaca e monopolio non hanno mai prodotto buoni servizi, uguaglianza e libertà. Semmai, come la storia ci attesta, hanno contribuito a rafforzare il dispotismo e la corruzione. Forse noi italiani non riusciamo ancora a liberarci dall’eredità dello statalismo fascista che, come si sa, menava gran vanto di due sue caratteristiche ideologiche: l’anticapitalismo e l’anti individualismo. 

venerdì 30 novembre 2012

Le ultime novità: seconda parte. L'occupazione delle scuole


Le novità di questi giorni: seconda parte.
Le proteste studentesche



2. Le proteste studentesche. Iniziate qualche settimana fa, anche quest’anno sono arrivate le solite autunnali proteste studentesche. Non mi soffermerò sul “vuoto conformismo” che spesso queste stereotipate manifestazioni rappresentano: aspetto sul quale Giovanni Belardelli ha scritto di recente un articolo, pubblicato dal Corriere della sera, che condivido del tutto (G. Belardelli, Il rito conformista delle occupazioni, Corriere della sera, 19 novembre 2012, p. 28).

Voglio soffermarmi, invece, sul merito di queste proteste: la protesta nei confronti della legge di stabilità, e la dura opposizione nei confronti del disegno di legge 953, noto come “ex-Aprea”. Si tratta di due questioni differenti e, secondo me, senza alcuna relazione tra loro. L’opposizione nei confronti della legge di stabilità riguarda i sacrifici che il governo intende imporre alla scuola: tagli e risparmi per circa 180 milioni di euro. Il fermento tra gli insegnanti era iniziato proprio per questo, perché, come si ricorderà, nella sua prima stesura la legge di stabilità prevedeva l’aumento di ben 6 ore settimanali di lavoro per tutti i docenti delle scuole medie e delle superiori, portando così l’orario settimanale di lezione da 18 ore a 24. Aumento d’orario di ben un terzo senza aumento di stipendio: naturale che la protesta si sia diffusa in un lampo e abbia prodotto una serie di petizioni on line giunte sul tavolo del Ministro Profumo. Il seguito della vicenda lo conoscete tutti: scosso dalla protesta, il governo ha fatto marcia indietro, stralciando dal progetto l’aumento delle ore di lavoro.


Sono rimasti, però, i tagli. Da dove prendere i 180 milioni? Molto probabilmente la decurtazione colpirà il Fondo dell’istituzione scolastica, ovvero quei trasferimenti con i quali il Ministero finanzia le cosiddette “attività aggiuntive”. Subito è scattata un’altra forma di protesta: la sospensione delle attività pomeridiane, come sportelli e corsi di recupero, progetti, certificazioni ecc. È stata giusta e ben orientata questa mobilitazione? Risponderò in poche parole. Giusta la mobilitazione contro l’aumento dell’orario, perché si tratta di materia contrattuale e perché il lavoro dell’insegnante non si esaurisce nelle 18 ore di lezione in classe, ma arriva vicino alle 40 settimanali. Opinabile la protesta contro i risparmi: non perché siano da approvare le decurtazioni delle risorse a disposizione della scuola, ma perché temo che, se vogliamo il pareggio di bilancio anche per il 2013, non siano attualmente disponibili altre soluzioni. Certo, è bene far sentire la protesta della scuola al governo, perché capisca che il mondo dell’istruzione sta soffrendo da molti anni per la penuria di risorse; inoltre è necessario ricordare continuamente alle autorità che la riduzione dei costi della politica è da preferire ai tagli alla spesa pubblica. Ma l’urgenza dell’adeguamento dei conti al fiscal compact europeo del marzo scorso sembra imporci ulteriori sacrifici, poiché i rischi per la nostra nazione permangono e appaiano ancora molto gravi. Che fare, allora? Continuare a scioperare finché tutti non saremo precipitati nel default? O stringere ancora una volta la cintura?  Inseguire un obiettivo ideale, giusto, ma di difficile realizzazione in tempi brevi, oppure affrontare subito l’emergenza con provvedimenti ingiusti ma necessari? Credo che, purtroppo, non ci siano alternative al sacrificio, almeno non in tempi brevi.


Completamente diverso è il discorso relativo alla protesta contro il ddl ex Aprea. Innanzitutto, quando è cominciata la mobilitazione degli insegnanti per le ragioni di cui sopra, l’obiettivo della contestazione del disegno di legge non era stato ancora messo ben a fuoco: ne sapevano poco gli insegnanti, non ne sapevano nulla gli studenti. È evidente che qualche ben informata fonte di mobilitazione politica ha saputo sfruttare ad arte la situazione di scontento per infilare tra gli obiettivi della protesta l’opposizione al ddl. La metodologia è la stessa di sempre: urlare con supponenza slogan brutali e ideologici, gridare che la scuola pubblica è sotto attacco e, con essa, la democrazia e la libertà; attendere che le urla facciano effetto e cavalcare poi la mobilitazione ponendosi alla testa  di manifestazioni, assemblee, occupazioni. Sicché è accaduto che una protesta nata per sacrosanti motivi sindacali abbia assunto, nel volgere di poche settimane, l’aspetto di una crociata a  difesa della scuola statale, contro l’attacco dei capitalisti pescecane che stanno per azzannarla.
Naturalmente in una situazione di agitazione tutto serve a chi vuole seminare rabbia e confusione: non ultima la disinformazione, come ha fatto il sito di notizie scolastiche orizzontescuola.it  che continua, tuttora (vedi: http://www.orizzontescuola.it/node/22958), a pubblicare la vecchia versione del ddl, quella precedente alle modificazioni imposte dal passaggio alla Camera dei Deputati il 10 ottobre scorso, traendo in inganno studenti, insegnanti e genitori.
Valentina Aprea

Ma cosa dice il ddl ex Aprea? Elaborato tempo fa da Valentina Aprea, già sottosegretario all’Istruzione nei governi Berlusconi, è stato modificato profondamente dalla Commissione cultura della Camera, prima di arrivare al voto del 10 ottobre. Su di esso si è registrata un’ampia convergenza, poiché Pd  e PdL hanno votato a favore. Il ddl così varato intendeva realizzare quell’autonomia scolastica prevista dalla legge n. 59 del 1997 (nota come legge Bassanini), dal DPR 275 del 1999 e dalla riforma del titolo V della Costituzione (art. 117). Queste norme avevano già previsto esplicitamente che obiettivo dell’autonomia sarebbe stata la “diversificazione” del servizio scolastico e il “coordinamento con il contesto territoriale” (art. 21, comma 8 della legge Bassanini; art. 1 comma 2 del DPR 275/99). In particolare il DPR del ’99 affermava che la formazione deve essere “adeguata ai diversi contesti” (quindi differenziata) e alla “domanda della famiglia” (la quale, quindi, deve essere in qualche modo coinvolta nell’elaborazione del Piano dell’Offerta Formativa predisposto dalla scuola). Anzi, l’art. 3, comma 3 del DPR afferma esplicitamente che “Il Piano dell'offerta formativa è elaborato dal collegio dei docenti […] tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto dei genitori e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti.” L’articolo 8 è anche più esplicito, poiché indica la possibilità di definire il curricolo in modo “flessibile”, integrando la quota “nazionale” con quella “riservata” alle singole scuole (comma 2), offrendo “agli studenti e alle famiglie […] possibilità di opzione” (comma 4). Diversificazione, ruolo delle famiglie, collegamento organico con il contesto territoriale socio-economico-culturale erano insomma già stabiliti dalle leggi degli ultimi 15 anni. La riforma del Titolo V della Costituzione, nell’articolo 117, ha aggiunto il principio di sussidiarietà nei fondamenti giuridici della Repubblica, affermando la “potestà legislativa” degli Enti autonomi.

Il ddl Aprea ha aggiunto poco di più a questo corpus di norme: ha affermato che ogni scuola, essendo autonoma, deve avere un proprio Statuto (come accade per ogni Ente autonomo: i Comuni hanno uno Statuto, le Regioni hanno uno statuto, le Province hanno uno statuto, le Poste hanno uno statuto…); che le famiglie hanno libertà di scelta riguardo all’istruzione e formazione dei loro figli (ma è davvero una novità? Lo dicevano già a chiare lettere le leggi precedenti); che gli organi collegiali devono essere in grado di recepire i cambiamenti introdotti dall’autonomia, aggiungendo al consiglio dell’autonomia (che dovrebbe sostituire il consiglio d’istituto) “ulteriori membri esterni” in numero non superiore a due, senza diritto di voto (art. 4, comma 1, punto e). Questi membri possono far parte del consiglio solo se vi è il parere favorevole “di almeno 2/3 dei componenti del consiglio stesso”, e possono essere scelti tra i soggetti indicati dall’art. 1 comma 2: rappresentanti dello Stato, delle Regioni, delle autonomie locali, delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi. È così scandaloso tutto ciò?

Può darsi che lo sia. Tutto quel che hanno affermato in questi ultimi 15 anni le leggi che ho citato è materia opinabile (fermo restando, però, che la Costituzione ha introdotto la sussidiarietà: non si può invocare la Costituzione solo quando fa comodo!). Tutto è opinabile in fatto di organizzazione scolastica. Ma se si contesta il ddl ex Aprea occorre rigettare tutte le norme istitutive dell’autonomia: come realizzare il coinvolgimento dei soggetti sociali, politici, culturali ed economici del territorio previsto da quelle norme se non dando ad essi un minimo di spazio nelle istituzioni scolastiche? E come dare voce alle esigenze formative delle famiglie se non facendole partecipare all’elaborazione del POF? Come, infine, attribuire “potestà legislativa” ad una scuola autonoma senza dargli il potere statutario di decidere come organizzare la propria esistenza, dall’attività curricolare a quella “progettuale”, dalle assemblee studentesche alle visite d’istruzione? Anche se si volesse rigettare del tutto il ddl in questione, resterebbe comunque da risolvere il problema di come dare realizzazione alle norme del ’97 e del ’99 che hanno istituito l’autonomia scolastica.  
La sen. Mariangela Bastico

Ho l’impressione che in Italia le informazioni sulle leggi non vengano divulgate nello stesso modo: nessuno si scandalizza delle norme sull’autonomia; grande crociata, invece, sulle scandalose norme del ddl ex Aprea. Perché? Una risposta possibile la trovo nelle parole della senatrice del Pd Mariangela Bastico, ex vice ministro dell’Istruzione nel secondo governo Prodi. Nel suo sito afferma: “Dai numerosi incontri che abbiamo fatto come parlamentari e componenti del Pd, dalle audizioni avviate al Senato e soprattutto dalle grandi manifestazioni degli studenti e degli insegnanti abbiamo ben compreso l’altissima contrarietà e l’allarme nei confronti di un testo, che, pur profondamente cambiato, viene percepito come “legge-Aprea” e comunque tale da determinare per le scuole rischi di frammentazione, arbitrio, marginalizzazione” (DDLsulla governance delle scuole: il Pd non intende procedere nell’iter al Senato”). Quindi la crociata non c’entra nulla con il merito della legge, bensì con il nome che porta? La legge sarebbe quindi, a causa del suo nome, un simbolo per ricordare a tutti che la sinistra è pur sempre una forza che “si oppone”, anche se in questo momento non può farlo perché deve appoggiare Monti? Opporsi ad un disegno di legge che è nato nell’epoca dell’odiato Berlusconi equivarrebbe a  “dire qualcosa di sinistra”? L’opposizione al ddl Aprea servirebbe insomma per motivi di cassa elettoralistici? 

 

Da ingenuo quale sono continuo a sperare di no, continuo a sperare che questa non sia la risposta giusta alla domanda che ho posto. Perché allora opporsi al ddl Aprea ma non all’autonomia scolastica? C’è un’altra risposta? Forse ce ne sarebbe un’altra: l’autonomia scolastica in Italia tutti la invocano, ma nessuno la vuole veramente. Affermata con parole inequivocabili nelle leggi degli anni Novanta, è stata affossata per via “amministrativa”, riducendola a ben poca cosa. Cosa è rimasto, infatti, del “coordinamento con il contesto territoriale”, del “curricolo flessibile”, dell’ascolto delle domande formative delle famiglie e, soprattutto, della “diversificazione delle scuole”? È rimasto il peggio: il coordinamento con il territorio e la  flessibilità del curricolo sono stati declinati nel senso di offrire agli studenti occasioni di svago, percorsi formativi “alla moda”, settimane bianche, assemblee con “laboratori ludici”; la diversificazione non è stata ricercata nella qualità dello studio (dove sarebbe invece auspicabile che venisse messa in luce) bensì nella quantità delle “offerte” suddette rivolte agli studenti: ad esempio, siccome tutte o quasi tutte le scuole fanno la settimana bianca, è più gettonata la scuola che riesce ad organizzarla nel luogo più “cool”, al prezzo più competitivo, per più studenti possibili, per un maggior numero di giorni; siccome tutte le scuole organizzano il viaggio di istruzione di fine ciclo (che gli studenti chiamano, meno ipocritamente, “gita delle quinte”), conquista più fama quella scuola che riesce ad organizzarla nel luogo più esotico, al prezzo più competitivo: perché non fare una crociera? Perché non un safari in Kenia? Perché non un tour nei resort della Thailandia? Questa è l’autonomia scolastica in Italia, contro la quale non ho mai visto alcuna mobilitazione studentesca, né di insegnanti, né tanto meno di sindacati della scuola.


 

Due sono secondo me i mali attuali della scuola italiana: lo strapotere dei Dirigenti scolastici (figura creata dalla legge Bassanini, non dal ddl ex Aprea); la strisciante affermazione della cultura consumistica o, come scrisse tempo fa Paolo Mazzocchini, la cultura del “customer satisfaction” (= soddisfazione del cliente). Anche questa creata dalle leggi sull’autonomia, non dal ddl ex Aprea. Nessuno si è accorto che le due questioni sono strettamente connesse: i Dirigenti scolastici spingono (e quasi sempre ottengono) perché si adottino scelte didattiche gradite e piacevoli per gli studenti; la pubblicizzazione di queste scelte porta più iscritti alla scuola; il Dirigente guadagna di più e ottiene ancora più potere. A rimetterci è la cultura tradizionale che nessuno ama più: non l’amano i Dirigenti, perché temono che possa allontanare iscritti potenziali; non l’amano le famiglie che vorrebbero una scuola baby sitter, non una scuola che faccia sudare sui libri; non l’amano gli studenti che avvertono istintivamente quanto essa sia faticosa rispetto alle più accattivanti mode tecnologiche che il mondo propone loro. Uno degli “esecrabili scandali” del ddl ex Aprea è l’ingresso (possibile) di due soggetti privati, provenienti dal territorio, che potrebbero sedere nel consiglio dell’autonomia senza diritto di voto, come dicevo prima. Anche per questa proposta gli studenti sono scesi in piazza e hanno occupato le scuole. Nessuno, proprio nessuno, invece, in questi 15 anni di autonomia scolastica, ha mai protestato, manifestato, occupato scuole perché si avessero più ore a disposizione per studiare storia o matematica, e meno conferenze, meno cineforum, meno “gite” in orario scolastico. L’autonomia piace agli studenti se porta al disimpegno e piace ai Dirigenti se porta nuove iscrizioni. Non piace se si pretende di realizzarla fino in fondo, coinvolgendo nella formazione dei giovani territorio e famiglie. Forse è arrivato davvero il momento di mettere in discussione l’autonomia scolastica (sulla quale tornerò ancora).


 

Nel frattempo prendo nota del fatto che la piazza ha forse avuto successo: il Pd, come scrive la sen. Bastico, ha tolto l’appoggio al ddl ex Aprea; il Ministro Profumo ha affermato, nella lettera del 22 novembre  diffusa in tutte le scuole, che riguardo al ddl Aprea “non c’è alcuna responsabilità del Governo, né mia personale” e, aggiunge, “in alcun modo ho partecipato alla stesura del testo o ne ho mai condiviso l’impianto” (vedi qui la lettera completa): insomma, ha preso le distanze dal ddl, abbandonandolo a se stesso.  Perciò, è molto probabile che il ddl non approdi al Senato, cosicché gli studenti potranno cantare vittoria. Se poi si continueranno ad organizzare “assemblee ludiche” e a studiare poco, questo non importerà a nessuno. 




lunedì 26 novembre 2012

Primarie del centro-sinistra e proteste studentesche.


Le novità di questi giorni: le primarie del centro-sinistra.
Le proteste studentesche


Mentre il lavoro mi teneva inchiodato alla scrivania e lontano dal mio blog per diversi giorni, sono accadute in Italia due cose meritevoli di attenzione: le primarie del centro-sinistra; le manifestazioni studentesche (e in genere della scuola) contro la legge di stabilità e, soprattutto, contro il ddl 953, meglio noto come “ex-Aprea”. Alle due questioni dedicherò questo post e, tra qualche giorno, il prossimo.


1. Le primarie del centro-sinistra. L’esperienza delle primarie “all’americana” si sta radicando nel nostro paese, e questo è un bene. La selezione dei candidati (alla carica di Primo ministro o a quella di sindaco di una città) all’interno di uno schieramento politico giova alla chiarezza ed evita il frazionamento eccessivo delle forze in competizione. Ma queste primarie hanno rivelato qualcosa di più. Hanno rivelato una profonda differenza tra il centro-sinistra e il centro-destra. Il PD e in genere il centro-sinistra, dall’Idv a Sel, hanno saputo creare nel tempo una classe dirigente, una leadership attorno alla quale si coagulano interessi, posizioni politiche, scelte ideali. Dopo la fine della Prima Repubblica e la crisi del sistema dei partiti che l’ha accompagnata, questa è la notizia più positiva: c’è una classe politica che sta risorgendo attorno alla leadership del centro-sinistra, un ceto politico, in parte nuovo in parte meno, che sta ricostruendo la propria credibilità, passo dopo passo.

Il centro-destra, invece, versa in una crisi di leadership, come dimostrano gli eventi di questi ultimi giorni: le polemiche interne sull’opportunità di effettuare le primarie (Alfano le vuole, Berlusconi ha più volte opposto il veto), l’eccessivo numero di candidature (se non sbaglio lunedì scorso si era giunti a undici candidati: vedi sky.it), le accuse reciproche tra i candidati di essere più o meno fedeli al capo, di essere più o meno presentabili… Il centro-destra in quasi 20 anni di vita non ha saputo creare una classe dirigente capace di continuare l’attività politica dopo il ritiro o la delegittimazione del suo fondatore, Silvio Berlusconi. L’unica classe politica con un certo seguito e una certa autonomia dal Cavaliere è quella che proviene da An che, infatti, sta cercando in questi giorni di prendere in mano la guida del Popolo delle libertà. Per il resto attorno a Berlusconi c’è solo il deserto: non un solo uomo o una sola donna del PdL hanno forza a sufficienza per affermarsi nel partito, poiché tutti sono stati più o meno imposti dal Capo, nessuno può vantare una propria autonoma legittimazione politica. La vicenda delle primarie del PdL sta rivelando a tutti gli italiani ciò che molti sapevano già da tempo: che il partito di Berlusconi è un “partito di plastica”, un partito finto, in toto dipendente da un solo uomo, senza una vera base e, quindi, senza una vera classe dirigente interna.

Anche alla luce di ciò, è tanto più encomiabile ciò che il PD è riuscito a fare: il processo di selezione del candidato attraverso le primarie che il partito ha avviato dimostra non solo, come dicevo, che esso è dotato di una ceto dirigente, ma anche che sa mettere in moto i meccanismi per il rinnovamento dei vertici. Tuttavia, secondo il sottoscritto, solo Matteo Renzi rappresenta appieno questo rinnovamento: Renzi è giovane, meno connotato ideologicamente rispetto a Bersani e a Vendola, pronto a ragionare sui problemi attuali senza preclusioni ideologiche e, soprattutto, non cerca nelle ideologie del passato la propria legittimazione politica. In questo senso un confronto tra il programma di Renzi e quello di Vendola dovrebbe chiarire le idee anche al più scettico.

Detto questo, mentre esprimo il mio favore nei confronti del sindaco di Firenze, devo manifestare subito un timore: se Renzi non vincerà il ballottaggio del prossimo 2 dicembre (e ciò è probabile, dati i risultati che in queste ore vengono resi noti), che ne sarà del suo pur coraggioso tentativo di rinnovare il centro-sinistra e la politica italiana? Se Renzi sarà sconfitto gli resteranno solo due possibilità: o rimanere nel partito piegando la testa, o uscire dal partito fondando l’ennesimo “cespuglio sotto la Quercia” per occupare un piccolo spazio nell’affollato centro-sinistra nazionale. Francamente non saprei quale delle due scelte consigliargli, ma certo è che il suo tentativo di rinnovamento rischia di naufragare in entrambi i casi.

Se invece dovesse  vincere, esito poco probabile ma non impossibile, credo che non sia così difficile prefigurare la vittoria del centro-sinistra alle elezioni politiche della prossima primavera: Renzi sarebbe la persona giusta per rassicurare il ceto medio e i delusi del centro-destra, ma allo stesso tempo garantirebbe l’impegno per una seria politica riformista. Inoltre potrebbe convincere anche coloro che a tutt’oggi hanno creduto e stanno ascoltando la sirena populista di Grillo, poiché Renzi appare fuori dai giochi della casta, insomma potrebbe venir percepito come un politico pulito e per bene anche da quanti vorrebbero distruggere ogni ceto politico. Per il centro-destra Renzi  sarebbe un avversario temibilissimo. Di questo si è accorto lo stesso Berlusconi che, proprio oggi, ha affermato: “con Renzi potrebbe nascere la forza socialdemocratica” (vedi notizia di qualche ora fa sul portale ADNKronos). 

Un complimento? Sì, certo, se ad esprimersi così fosse stato un altro personaggio della nostra politica (che so, Di Pietro o Casini), non se queste parole provengono dall’uomo più odiato dal “popolo di sinistra”. Cosa penseranno gli elettori di Vendola e della Puppato sentendo che Berlusconi tifa Renzi? Penseranno che al ballottaggio è meglio votare per Bersani. Credo che questo ragionamento l’abbia fatto anche il Cavaliere il quale, sapendo quale pericoloso avversario sarebbe Renzi alle elezioni politiche, con la sua uscita odierna ha praticamente consegnato a Bersani la leadership del centro-sinistra. In queste ore persino i vendoliani si staranno complimentando con Berlusconi. (1-continua)

domenica 18 novembre 2012

Corruzione politica e corruzione civile.


I cittadini italiani sono migliori dei politici corrotti?

Francesco Belsito
Franco Fiorito ("Er Batman")




Vincenzo Maruccio
Luigi Lusi

Francesco Belsito, Luigi Lusi, Franco Fiorito: il primo tesoriere della Lega nord, il secondo della Margherita, il terzo del Pdl. Dovremmo aggiungere a questa lista anche i nomi di Filippo Penati, ex Presidente di centro-sinistra della Provincia di Milano, e, da qualche giorno, quello di Vincenzo Maruccio, ex capogruppo dell’Idv alla regione Lazio, nonché anche lui tesoriere del suo partito. Molti altri, purtroppo, dovremmo aggiungerne, ma restiamo su questi esempi. Se si escludono Lusi e Penati, un po’ più anziani degli altri che ho nominato, si tratta di politici giovani, appartenenti a partiti sorti dopo gli anni ’90, provenienti da brevi esperienze politiche e in qualche caso da attività professionali. Hanno inoltre un’altra caratteristica in comune: sono stati democraticamente eletti dal popolo. Fiorito, nelle elezioni amministrative del 2010, è risultato addirittura il consigliere regionale più votato nel Lazio. Tutti, com’è noto, sono indagati per appropriazione indebita di denaro pubblico che avrebbero utilizzato per scopi personali: automobili, ville, feste, viaggi costosi, abiti firmati, pranzi e cene in ristoranti rinomati, oggetti di lusso e persino gioco d’azzardo e donnine allegre.

Filippo Penati
Il pool di Mani pulite
La vecchia classe dirigente italiana, quella della Prima Repubblica, è stata spazzata via quasi per intero dal ciclone di Tangentopoli del 1992. Quella tempesta ha decretato la fine della Dc, del Psi, del Psdi, del Pri; mentre il Pci, per altre ragioni, era già stato sepolto dalle macerie del Muro di Berlino. I vecchi nomi della politica italiana, presenti sulla scena pubblica da oltre 30 anni, alcuni anche di più, scomparvero, inghiottiti dai processi di “Mani pulite”, dalla corruzione, dagli scandali. Da quel terremoto è emerso il nuovo sistema politico italiano, ovvero una nuova classe politica, nuovi partiti, nuovi volti spesso più giovani. Certo, qualche “dinosauro” della vecchia stagione è sopravvissuto al ciclone, ma per lo più il panorama si è modificato profondamente, tanto da indurre stampa e televisione a parlare di Seconda Repubblica. L’espressione non è mai stata del tutto appropriata poiché, come si sa, la nostra Carta costituzionale è rimasta pressoché la stessa, salvo alcune parziali modificazioni. Ma quel che è accaduto dopo il 1992 è stato ugualmente sufficiente per giustificare la definizione: i vecchi politici non c’erano più, i meccanismi di selezione del personale politico erano cambiati, le norme elettorali modificate dalla legge Mattarella del 1993 (il cosiddetto “Mattarellum”, come lo chiamò Giovanni Sartori).
Berlusconi nel 1994, anno della "discesa in campo"
con la fondazione di Forza Italia

Ma soprattutto era cambiata una cosa. I nuovi partiti e i nuovi leader si presentarono come rappresentanti della società civile, non della casta dei politici. Dicevano di essere i testimonial di coloro che lavorano e producono, dell’Italia sana, quella che si arrabatta ogni giorno con il lavoro, con l’esiguità del denaro, con le tasse. La politica della Seconda Repubblica si mostrava insomma come più vicina alla gente comune, ai cittadini medi, al popolo. Simboli di questa novità furono soprattutto Forza Italia e la Lega nord, ma anche i movimenti e le formazioni politiche sorte in seguito, dall’Idv al Movimento 5 stelle. Berlusconi, soprattutto, si presentò come “uno di noi”, un uomo della società civile, non del Palazzo, uno che si era costruito da solo, che aveva lavorato faticosamente per accumulare la propria fortuna e per arrivare al successo: un “presidente operaio”, come diceva uno degli slogan della Casa delle libertà nelle elezioni del 2001.
Manifesto elettorale del 2001
Così, dalla metà degli anni Novanta in poi la politica italiana è stata caratterizzata da un nuovo spirito pubblico che ne ha legittimato i leader: improvvisamente non è più contato, per ottenere consenso, aver frequentato le scuole di partito o le associazioni ecclesiastiche; non ha avuto più importanza l’esibizione di un pedigree antifascista; non è servito aver seguito il cursus honorum attraverso i vari livelli della politica, dall’amministrazione comunale a quella regionale. Da quel momento in poi ha avuto importanza poter vantare successi di altro tipo, poter esibire altri generi di patenti: provenire dalle libere professioni e dal “popolo delle partite Iva”, avere svolto lavori comuni, sia pure ben remunerati (il medico, il notaio, il dentista, l’ingegnere, l’avvocato, il magistrato, il giornalista, il dirigente d’azienda), oppure avere esperienza di comunicazione e magari avere avuto successo attraverso la televisione. Non a caso sono entrati massicciamente in politica addetti alle pubbliche relazioni e pubblicitari, ma anche attori, cantanti, comici, disc jockey e animatori di villaggi turistici. La società civile, appunto, sembrava volersi prendere la sua rivincita nei confronti di quella politica paludata, di quei professionisti del maneggio elettorale che occupavano la scena pubblica almeno dagli anni Sessanta e Settanta. Una nuova retorica e una nuova mitologia si impose nel discorso politico: “essere un uomo di successo”, saper comunicare, avere un’ attività, contare qualcosa nel mondo della produzione, o della finanza, o del giornalismo, o della pubblicità, o delle professioni. Queste le nuove credenziali che venivano richieste ai nuovi politici.

Ebbene, a distanza di venti anni possiamo cominciare a tirare le somme di questa trasformazione. Cosa ha prodotto? Ha migliorato la politica italiana o no? L’ingresso della società civile negli austeri palazzi della politica ha saputo innovare e rendere più libera, più democratica la politica? E soprattutto: l’ha resa più pulita? Gli eventi accaduti di recente devono farci rispondere “no” a tutte queste domande. La politica è più inaccessibile di ieri, la casta dei politici ancor più privilegiata di ieri, la corruzione ancor più diffusa e radicata di ieri. Ma c’è un’aggravante rispetto a ieri: nella Seconda Repubblica i politici assomigliano di più agli italiani che li hanno eletti, sono parte di quella società civile che li ha delegati a governare, provengono da ambienti molto vicini a quelli frequentati dagli elettori. Dall’azienda di famiglia alla libera professione, dallo stadio alla discoteca, dai concorsi di bellezza alle tv locali, dal quartiere di periferia a quello dello shopping di lusso: questi gli ambienti da cui proviene la nuova classe politica della Seconda Repubblica; provenienza che ne fa un distillato, un campione rappresentativo delle trasformazioni avvenute nella società italiana dagli anni Novanta in poi.
Joseph De Maistre (1753-1821)

“Ogni nazione ha il governo che si merita”, scrisse con saggia amarezza il filosofo conservatore Joseph De Maistre all’inizio del XIX secolo. Questa affermazione è tanto più vera in un sistema democratico, dove il cittadino può scegliere i partiti e gli uomini che lo governeranno. Si dirà che in Italia il voto di preferenza è stato sottratto agli italiani dalla legge Calderoli del 2005 (il noto “Porcellum” che sostituì il “Mattarellum”): forse questo è vero per Lusi e, in parte, per Belsito; ma che dire di Fiorito che nel 2001 è stato eletto direttamente dalla popolazione come sindaco di Anagni? Che dire del fatto che, malgrado la condanna del 2005 da parte della Corte dei Conti, per avere usato soldi pubblici in attività auto promozionale, sia stato eletto consigliere regionale del Lazio nel 2005 e poi rieletto nel 2010, quest’ultima volta addirittura con grande successo di voti, come dicevo all’inizio? E infine: che dire di quei consigli regionali, come quello del Lazio disciolto di recente, in cui i rimborsi spese elargiti ai partiti di ogni colore superano di gran lunga le spese del Parlamento e del Quirinale? I consiglieri regionali non sono imposti dalle liste bloccate dei partiti, ma vengono eletti dai cittadini con voto di preferenza.

La casta è corrotta, almeno in buona parte. Non fornisce buoni esempi, è vero. Ma dalla società civile italiana arrivano forse lezioni di etica pubblica? Sarebbe da illusi sostenerlo: la società civile italiana è troppo di frequente al di sotto della sufficienza in fatto di moralità civile. Come si spiegherebbe, diversamente, la fabbrica dei falsi invalidi che pesa sui conti pubblici, secondo l’Inps, per circa 1,5 miliardi di euro l’anno (si veda ad esempio Repubblica, 1 febbraio 2012)? E come potremmo spiegare altrimenti la diffusione capillare dell’evasione fiscale che rappresenta ormai il 18% del Pil (si veda ad esempio Il Sole24ore, 15 giugno 2012)? Come spiegare l’illegalità diffusa che, come ho scritto nel post del 29 giugno scorso, si apprende già sui banchi di scuola, laddove vi sia indulgenza nei confronti dello studente che copia? Come spiegare, insomma, l’irritazione che spesso gli italiani mostrano nei confronti di tutto ciò che è regola, controllo e sanzione?
Evasione fiscale e sommerso in Italia (dal Corriere della sera)
Le recenti vicende di corruzione dicono molto della realtà politica nostrana. Ma purtroppo dicono molto anche dello stato in cui versa la moralità pubblica degli italiani. Forse ha ragione chi dice che occorre ricostruire tutto in Italia. Solo che la ricostruzione dovrebbe partire dal basso, dai cittadini che la popolano. Una valutazione, questa, che non troverà facilmente accoglienza presso i politici e il pubblico italiani, perché poco indulgente e priva di intenti populisti; in breve è una valutazione troppo realista. E il realismo politico, in Italia, non ha mai avuto grande fortuna.