venerdì 8 giugno 2012

Memoria, oblio e storia: 1a parte


Memoria, oblio e storia: prima parte


“Gli storici assolvono il compito professionale di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare.” (Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, tr. it. Milano, Rizzoli, 1995, p. 128; a proposito della riscoperta, negli anni ‘80 e ‘90, del liberismo, sebbene questo abbia dimostrato, secondo Hobsbawm, la sua inefficacia teorica e pratica durante la Grande crisi degli anni Trenta).
Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm

È davvero così? È questo il compito degli storici? E, soprattutto, è giusto obbligare a ricordare quel che si desidera dimenticare?


1. Il passato che non passa: Germania e Francia tra storia e memoria
È sempre difficile conciliare storia e memoria. Come ha scritto Enzo Traverso in Il passato: istruzioni per l'uso. Storia, memoria, politica (Verona, Ombre corte, 2006), storia e memoria si oppongono come l'oggettivo e il soggettivo, l'assoluto e il relativo. La memoria dei fatti accaduti in un'epoca, finché ne sono vivi i testimoni diretti, enfatizza alcuni aspetti e ne tace altri, perché i testimoni sono coinvolti emotivamente nel ricordo e non riescono ad avere di quei fatti una visone obiettiva. Uno storico, invece, non dovrebbe agire così, ma spesso anche lui è influenzato dall'atmosfera culturale in cui opera, così capita che ricostruzione storica e memoria finiscano per coincidere, generando una versione dominante dei fatti che si sostituisce del tutto al rigore critico e al dovere dell'obiettività.

Vi sono anche ragioni psicologiche che spiegano perché accade questo. Un trauma forte capitato in una comunità impone, perché la vita ricominci a scorrere in modo normale, la rimozione di quegli eventi, rimozione che spesso assume la forma di una condanna morale incondizionata che la storiografia fa propria, senza indagare troppo sulle reali responsabilità, cosa che potrebbe coinvolgere gruppi di persone insospettabili: in tal modo la storiografia aiuta la comunità a  riprendersi e a vivere normalmente; ma abdica al proprio dovere di indagine critica.

È quel che è successo in Germania con lo sterminio degli ebrei e più in generale con il nazismo, vicende quasi rimosse, dopo la fine della guerra, dall'opinione pubblica tedesca e di riflesso non ben affrontate dalla storiografia tedesca dell'immediato dopoguerra. Anche in Francia il collaborazionismo di Vichy fu affrontato da una parte dell'opinione pubblica con superficialità, condannando la questione come un episodio grave ma che nulla aveva a che vedere con la gloriosa storia della Francia repubblicana. Tali visioni dominanti durarono fino a che la rimozione cominciò ad essere percepita come un silenzio complice. Ecco allora che, a partire da quel momento, comincia la revisione della memoria ufficiale e nascono nuovi modi di intendere il passato rimosso.
Adolf Eichmann durante il processo svoltosi nel 1961 a Gerusalemme. Eichmann venne impiccato il 31 maggio 1962

Hannah Arendt (1906-1975)
In Germania, a partire dagli anni Sessanta, sulla scorta degli studi sociologici statunitensi, e sotto l'influenza del processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961, comincia un approfondimento storico del nazismo che conduce ad individuare nella stessa storia tedesca i presupposti della dittatura. A questi studi si aggiunsero quelli di ispirazione marxista, così si formò una nuova memoria ufficiale che si concentrava su temi nuovi: responsabilità del capitalismo tedesco e del capitalismo in generale; responsabilità delle scelte politiche precedenti, sino al tema del coinvolgimento di una parte notevole della popolazione tedesca nella follia criminale del nazismo. Quest'ultimo tema deve molto al concetto di “totalitarismo” introdotto da Hannah Arendt fin dal 1951 (Le origini del totalitarismo) e poco più tardi da alcuni scienziati sociali statunitensi (Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinskj, Totalitarian Dictatorship and Autocracy,1965): lo stato totalitario, infatti, gode di un certo consenso popolare stimolato e organizzato da apposite strutture di propaganda e di mobilitazione di massa. Sulla base del concetto di totalitarismo, ad esempio, lo storico tedesco George Mosse pubblicò negli anni Ottanta una serie di studi in cui analizzava la funzione avuta, nella mobilitazione del consenso in Germania, dalle associazioni sportive, ricreative e giovanili. Insomma, se la Shoah era stata omessa nella memoria ufficiale tedesca prima degli anni Sessanta, poi divenne una memoria forte e ufficiale, protetta istituzionalmente, indiscutibile: il nazismo veniva così giudicato come il “male assoluto”. Non solo, il tema del consenso alla dittatura ha generato quello della “colpa collettiva” del popolo tedesco, tesi sostenuta da autorevoli studi storici di grande successo: ad es. lo storico statunitense Daniel Goldhagen pubblicò nel 1996 lo studio I volenterosi carnefici di Hitler nel quale, sulla base di una mole notevole di documenti, provò il coinvolgimento diretto, persino emotivo, dei soldati e della popolazione tedeschi nelle operazioni di costruzione dei lager, di detenzione dei reclusi e di sterminio degli ebrei. 

Lo storico tedesco Ernst Nolte
L'eccesso di memoria che questa svolta produsse in Germania generò, a sua volta, una controreazione. Tra 1986 e 1987, infatti, il grande pubblico fu coinvolto nella cosiddetta Historikerstrait, o “lite degli storici”. Essa esplose quando lo storico tedesco Ernst Nolte pubblicò un saggio intitolato Nazionalismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945 (1986) nel quale sosteneva che la causa (il “prius logico e fattuale”) del nazismo fosse nel bolscevismo, poiché fu questo ad inventare lo sterminio come arma politica, mentre il nazismo lo copiò per reagire al bolscevismo, per difendere da esso la nazione e l'identità razziale tedesche. Perciò, per Nolte era ingiusto demonizzare il popolo tedesco ed anche parlare del nazismo come “male assoluto”, poiché i crimini nazisti non erano unici e neppure i più gravi dei tanti commessi in nome dell'ideologia. Nolte fu accusato di “revisionismo” (cioè di voler rivedere una memoria ufficiale, ormai accettata dall'opinione pubblica e dagli studi storici) se non addirittura di “negazionsimo”, accusa assai più grave, perché indica coloro che negano o ridimensionano lo sterminio degli ebrei. In realtà Nolte non ha mai negato i lager né le cifre dell'Olocausto (semmai l'hanno fatto altri storici, come il francese Faurisson, dichiaratamente negazionista); ma la reazione dei vertici della cultura accademica tedesca contro Nolte dimostra come fosse scoperto il nervo sulla questione dell'interpretazione del nazismo. All'intera vicenda ha dedicato un libro lo storico italiano Gian Enrico Rusconi, Germania: un passato che non passa (Torino, Einaudi, 1987).
Maurice Papon (1910-2007) nel 1940, quando era un funzionario
della repubblica di Vichy

Vicende analoghe accaddero in Francia in occasione del processo contro Maurice Papon. Questi era stato prefetto di polizia di Parigi nel 1958, deputato all'Assemblea nazionale francese fino al 1976 e ministro nei governi di Raymond Barre tra 1978 e 1981. Ebbene, nel 1983 si scoprì essere stato, durante la repubblica di Vichy, prefetto di Bordeaux e, come tale, responsabile dell'invio di centinaia di ebrei francesi ai campi di concentramento nazisti. Nel 1998 fu condannato a 10 anni di reclusione per crimini contro l'umanità, poi tentò di rifugiarsi in Svizzera, venne acciuffato e arrestato. Morì in clinica, dove era stato ricoverato per motivi di salute, nel 2007. Il processo sollevò molte polemiche, la Francia si divise tra colpevolisti e innocentisti; Papon divenne il simbolo di una Francia compromessa molto in profondità con il collaborazionismo e per molti francesi, quindi, un capro espiatorio. Sulla vicenda lo storico francese Henry Rousso ha scritto due libri: La sindrome di Vichy (1987) e Vichy, un passato che non passa (1994), alludendo fin dal titolo dei due volumi al fatto che la memoria pubblica e ufficiale di quegli eventi non era affatto definitiva e indiscutibile, poiché vi erano ancora molti lati oscuri sui quali era calato un silenzio complice. (continua)

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