lunedì 11 giugno 2012

Memoria, oblio e storia: 2a parte


Memoria, oblio e storia: seconda parte


2. L'Italia e il controverso passato recente: le polemiche
Anche l'Italia ha avuto le sue dure polemiche sul passato recente; anche da noi le contese hanno avuto come oggetto il fascismo e l'antifascismo. Fino ai primi anni Sessanta, la storiografia ha esorcizzato la questione delle cause del fascismo:
secondo Croce il ventennio fu una parentesi nella storia d'Italia, frutto di un temporaneo decadimento morale. Poi, sotto l'influenza del marxismo, il fascismo fu giudicato una dittatura frutto della reazione del capitalismo contro le classi popolari italiane, estranee, quindi, a qualsiasi forma di consenso nei confronti del regime. La memoria ufficiale così si era formata: le classi popolari hanno subito la brutalità della dittatura, ma se ne sono liberate grazie alla Resistenza, una rivoluzione di massa i cui esiti più avanzati sarebbero stati bloccati dalla piega conservatrice presa dagli eventi tra 1945 e 1948.
Lo storico italiano Renzo De Felice (1929-1996)
Il primo volume della biografia su Mussolini
scritta da De Felice
Come è successo per la Germania con gli studi di Nolte, in Italia gli studi di Renzo De Felice sul fascismo (iniziati negli anni Sessanta e terminati negli anni Novanta) provocarono un ripensamento e una profonda revisione di questa “vulgata”.
L'opera di De Felice valutò del fascismo aspetti che fino a quel momento erano stati dimenticati o non studiati: il suo rapporto con le ideologie rivoluzionarie del Novecento, il suo legame con i cambiamenti rivoluzionari generati dalla prima guerra mondiale e infine l'aspetto del consenso nella costruzione del regime. Quest'ultimo aspetto, in particolare, suscitò le più forti reazioni contro De Felice: lo storico, infatti, sosteneva che la dittatura aveva goduto, come tutti i totalitarismi del Novecento, di un ampio consenso mobilitato dalle organizzazioni di massa del fascismo e cresciuto almeno fino al 1936, anno della conquista dell'Etiopia; cominciò a decadere, invece, quando l'Italia si avvicinò alla Germania, si alleò con essa, ne sposò la politica razziale, ne accettò la follia bellicista. La guerra e i tragici rovesci militari sancirono la rottura tra regime e popolazione. 

Infine, nell'ultimo volume dell'immensa biografia su Mussolini, e in alcuni libri-intervista (sono noti, ad esempio, Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Bari, Laterza, 1975 e Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini&Castoldi, 1995) lo storico avanzò anche l'ipotesi che tra il 1943 e il 1945, gli anni della Resistenza, più che una rivoluzione di massa si fosse combattuta una guerra civile tra due minoranze, mentre la gran massa della popolazione italiana, la cosiddetta “zona grigia”, sarebbe rimasta alla finestra in attesa degli eventi. De Felice si era basato su un'immensa mole di documenti mai esplorati e del tutto ignorati prima di allora; eppure, malgrado la forza scientifica dell'opera, questa fu demonizzata e sottoposta ad un durissimo attacco da parte di storici ed intellettuali di sinistra che erano i custodi della memoria ufficiale sul fascismo: De Felice divenne in Italia lo spregevole simbolo del revisionismo e spesso duramente e violentemente contestato anche per impedirgli di tenere lezioni all'Università La Sapienza, dove insegnava.
Giampaolo Pansa
Oltre al caso De Felice, in Italia negli ultimi anni è scoppiato il “caso Pansa”. Iniziò nel 2003, quando il giornalista pubblicò Il sangue dei vinti,(Milano, Sperling&Kupfer, 2003) ricostruzione storica, sebbene in forma non saggistica né accademica, delle vicende che insanguinarono l'Italia fra il maggio 1945 e la fine del 1946, quando, in una sorta di resa dei conti imposta dai vincitori ai fascisti vinti, vennero trucidate migliaia di persone in modo più o meno criminale, più o meno occulto ma pressoché ovunque in Italia, non solo nel tristemente famoso “triangolo della morte” (Bologna, Modena, Reggio). Tutti fatti che, come scrive Pansa nell'introduzione al libro, “la storiografia antifascista ha quasi sempre ignorato di proposito, per opportunismo partitico o per faziosità ideologica”. Il libro suscitò indignazione da parte di coloro che Pansa definirà più tardi “i gendarmi della memoria”: Pansa, che viene dalla cultura di sinistra, è stato vicino al Pci e ha scritto romanzi sulla Resistenza, è stato accusato di voler riabilitare addirittura il fascismo peggiore, quello della Repubblica di Salò. Al libro suddetto, comunque, ne seguì un altro (Sconosciuto 1945, Milano, Sperling&Kupfer, 2005), e quindi nuove polemiche, nuove aggressioni si susseguirono. Pansa rispose con La grande bugia (Milano, Sperling&Kupfer, 2006) e con I gendarmi della memoria (Milano, Sperling&Kupfer, 2007). In questi l'autore spiega che le vicende della Resistenza e dell'immediato dopoguerra sono state sempre narrate in modo distorto, ovvero solo dal punto di vista dei vincitori: “un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità”, scrive Pansa, hanno prodotto una sola “Grande bugia”, quella con cui l'antifascismo dei vincitori ha raccontato la storia del fascismo, ossia dei vinti. Per i “gendarmi della memoria resistenziale”, continua Pansa, “il tempo non passa mai. Sono rimasti inchiodati a quell'epoca di contraddizioni spietate: ricerca della libertà, accanimento nelle vendette, voglia di pace e pulsioni autoritarie. Queste ultime indirizzate ad affermare, persino con il delitto, una dittatura rossa, dopo la caduta di quella nera” (I gendarmi cit., p. VIII). “Chi non accetta la versione sacrale della Resistenza – prosegue l’autore - è considerato un nemico da battere”, quindi è aggredito e continuamente insultato: “bugiardo, elenca Pansa, voltagabbana, cinico in cerca di copie vendute. Sino all'immancabile accusa finale: revisionista. Affiancata all'insulto degli insulti: fascista”. (ibidem).

Questi esempi documentano quanto si diceva all'inizio: finché regge, una memoria ufficiale è indiscutibile per i più, e svolge un ruolo di igiene psico-sociale, ovvero rimuove la memoria delle colpe, libera la coscienza collettiva dal peso della responsabilità per quanto è avvenuto e consente di riprendere a vivere dopo il trauma patito: nel caso dell'Italia, il trauma fu prodotto dalla guerra, dalla divisione della nazione, dalla doppia occupazione e, ancora più in profondità, dal senso di colpa per il consenso più o meno esplicito tributato alla dittatura da parte di ampi settori della società. Poi, quando lo scorrere del tempo porta a galla nuovi punti di vista e le nuove generazioni si sentono meno bloccate dal senso di colpa, ecco che la memoria ufficiale viene sottoposta ad un processo di inevitabile revisione. È vero che in questi casi può esserci un'enfasi eccessiva sul diritto alla memoria da parte di chi era stato dimenticato dalla precedente memoria ufficiale, ma questo eccesso non deve essere confuso con lo spirito che dovrebbe muovere l'azione di ricerca dello storico onesto. Lo storico ha il compito di capire, non di costruire “verità”, sicché ogni tentativo di accettarne una fissa e ufficiale è un tradimento del suo dovere professionale. Lo storico ha l'obbligo di essere critico verso la memoria ufficiale, ha l'obbligo di essere “revisionista”. L'esito del processo di revisione non è la scoperta della verità, ma una spiegazione più completa dei traumi patiti da tutti; nei casi migliori può condurre a costruire una memoria condivisa, o per lo meno pacificata, anche se permangono le divisioni.
Il filosofo Avishai Margalit. Attualmente insegna a Princeton
Ma è obbligatorio ricordare il passato? Ed è necessario avere di esso una memoria collettiva condivisa? Il filosofo israeliano Avishai Margalit, ha scritto un libro intitolato L'etica della memoria (tr. it. Bologna, Il Mulino, 2006) nel quale spiega che il ricordo serve, perché contrasta la tendenza del male all'oblio. Gli eventi dolorosi e negativi tendono di per sé ad essere dimenticati proprio perché ricordarli provoca sofferenza; ma la memoria collettiva ne conserva il ricordo come monito per le generazioni che non hanno vissuto direttamente quel dolore, nella speranza che le cause che l’hanno prodotto non si ripetano mai più. Così la memoria collettiva crea vincoli identitari e diviene un “collante” della comunità: in questo senso ricordare è etico. Ma diventa poco etico se il ricordo conserva anche l'emozione dell'esperienza vissuta, con il carico di odio e di risentimento che inevitabilmente quell'emozione porta con sé: l'esperienza del passato va ricordata, non rivissuta. Perciò è necessario ricordare gli eventi, ma dimenticarne le emozioni violente che ad esse si sono accompagnate; se c'è un'etica nel ricordare, vi è anche un'etica nell'oblio: ciò che va dimenticato è il carico di odio e di rancore che inevitabilmente si genera con il male sofferto. Il ricordo deve aprirsi al perdono, deve superare le emozioni vissute, conservando solo il significato dell'evento maligno.

Margalit ci consiglia di seguire una strada impervia: l’obiettivo del ricordo senza odio è difficile da perseguire volontariamente, solo con il tempo e con molto auto dominio si può raggiungere il risultato di occultare l'emozione del ricordo senza cancellare la memoria dell’evento. In questo il discorso pubblico, da cui dipende la memoria collettiva, deve aiutare a ripulire la memoria dell'evento dalle incrostazioni delle emozioni, e ridare agli eventi dolorosi la loro giusta prospettiva e collocazione nella storia. Cultura, intellettuali, stampa, televisione e insegnanti hanno un ruolo fondamentale in questa operazione.
Solo così, comprendendo con pietas il significato degli eventi, rinunciando all'emozione, si può accettare di avere di uno stesso evento diverse letture e diverse interpretazioni, una memoria quindi divisa, ma una coscienza collettiva pacificata, perché ripulita dall'odio. I conti con le memorie, in questo modo, possono “tornare” e condurre all'accettazione condivisa delle fratture che i conflitti hanno generato, senza più odiare il nemico, senza più auspicarne la morte.

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