martedì 10 luglio 2012

Chi si ricorda della new economy?



Il mito della new economy


Prima parte: la new economy e la bolla speculativa del 2000

La crisi economica attuale, iniziata nel 2008 negli Stati Uniti con il crac del mercato dei mutui sub-prime e poi aggravatasi nel 2011 con la crisi dei debiti sovrani europei, ha forse un’origine nel fenomeno della globalizzazione. Quest’ultimo, a sua volta, ha origini lontane, nella internazionalizzazione degli affari iniziata dopo la seconda guerra mondiale. Oggi tutti, o quasi tutti, si sono scoperti critici della globalizzazione e in Europa c’è persino chi invoca il ritorno al protezionismo doganale per contrastarne gli effetti. Eppure, non più tardi di 10-12 anni fa, vi era un mito opposto ad occupare lo spazio della discussione pubblica: quello della new economy. Qualcuno se la ricorda?

Nicholas Negroponte, informatico statunitense,
fondatore di MediaLab, cofondatore di Wired, autore
nel 1995 del best seller Being Digital
A causa della globalizzazione, e delle opportunità di sviluppo e di guadagno che questa sembrava promettere, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio l’opinione pubblica occidentale fu attraversata da un brivido travolgente: tecnologia telematica, finanza, inventiva, genialità, velocità sembrarono essere i “nuovi valori” della società del futuro. Internet sembrava promettere felicità, benessere e pace nel mondo; la soluzione di ogni problema sembrava provenire dal connubio tra informatica e finanza creativa; il termine globalizzazione suscitava più simpatie che astio tra le nuove generazioni e i giovani, affascinati da queste novità, erano spinti a non considerare più l’arricchimento personale come immorale ma, al contrario, come la giusta ricompensa dell’applicazione del proprio ingegno nei settori più avanzati della moderna economia globale, ovvero l’informatica e la finanza. I guru di questa new wave, come Nicholas Negroponte, sostenevano che presto il vecchio mondo dell’economia “materiale”, sarebbe stato sostituito da un nuovo universo economico “immateriale”, orbitante all’interno delle connessioni telematiche, un mondo in cui uomo e computer avrebbero interagito in modo sempre più efficace e sempre più rapido.
 Non solo la new economy sarebbe stata migliore rispetto alla vecchia economia, non solo sarebbe stata più moderna grazie alla nuova tecnologica, ma avrebbe costruito un mondo meno inquinato e moralmente più pulito, un mondo più giovane, più civile e più pacifico. Questi i miti che circolavano in quei decenni: dalla tecnologia telematica e dalla creatività finanziaria ci si attendeva la risoluzione dei problemi del mondo. La vecchia cultura umanistica non sarebbe servita più a nulla; ogni problema sarebbe stato risolto grazie a due soli strumenti: internet e mercato borsistico.


Così, a partire dagli anni Novanta le azioni emesse dalle aziende che producevano alta tecnologia conobbero un aumento notevole di valore, talvolta al di là di ogni aspettativa ottimistica, perché poterono contare sulla fiducia che il pubblico accordava alle imprese che lavoravano nel campo della telefonia mobile e di internet. Un’inarrestabile ondata di entusiasmo e di ottimismo produsse un’impennata rapidissima, senza precedenti, del valore delle azioni emesse da ogni azienda che potesse vantare qualche relazione con la tecnologia delle telecomunicazioni. Al punto tale che in alcuni mercati borsistici si è dovuto separare l’indice delle azioni collegate a quelle aziende da quello delle azioni collegate ad altri tipi di imprese: già negli anni Ottanta, ad esempio, a Wall Street vi era il listino dei titoli trattati telematicamente, il NASDAQ, che si è separato dal listino principale della Borsa di New York ed anche dal Dow Jones (listino dei 30 principali titoli trattati). Simili listini sono nati negli anni Novanta un po’ in tutte le Borse. Così in Italia è nato il Numtel (Nuovo Mercato delle telecomunicazioni), listino delle aziende della telecomunicazione, che si è staccato dal MiB (listino ufficiale di Milano Borsa), dal MiBtel (come il MiB, ma fondato sulla contrattazione telematica) e dal MiB30 (il Dow Jones italiano). Per questo il pubblico, i mass media e gli operatori economici hanno cominciato a parlare di new economy, intendendo con questo termine tutto il mercato finanziario e l’apparato produttivo collegato alle aziende che operavano in quei settori tecnologici. Difficile negare che abbia contribuito alla nascita di tale ottimismo il mito di internet a cui prima mi riferivo: come dicevo, a questo mito molti, specie tra le nuove generazioni, hanno attribuito compiti e finalità miracolose, quali la possibilità di rendere l’umanità più libera, più ricca, più felice.

In effetti molti di coloro che nel mondo diedero fiducia alle azioni delle aziende start up che investivano nel fenomeno di internet (le cosiddette dot-com) sono riusciti a fare dei buoni affari, alcuni si sono arricchiti, in qualche caso anche in modo notevole (negli USA divennero noti i casi di alcuni giovanissimi utenti di internet che, operando in borsa da casa, misero insieme colossali fortune). Ma la chimera della fortuna proveniente dalla new economy durò poco: nel breve volgere di alcuni mesi (dal marzo del 2000) molte delle aziende a cui era stata accordata troppa fiducia cominciarono a mostrare segni di cedimento; alcune non riuscirono a far fronte alle spese e ai debiti contratti; non poche dovettero chiudere. Accadde con la new economy la stessa cosa che era accaduta nel 1637 in Olanda a causa dell’euforia provocata dal commercio dei tulipani; la stessa cosa accaduta nel 1719 in Europa con la speculazione sui titoli della Mississippi Company; la stessa accaduta nel 1929 a New York con il Dow Jones di Wall Street; la stessa, infine, che sarebbe accaduta nel 2008 con l’entusiasmo per i mutui sub prime. Insomma la new economy mostrò di avere tutti i limiti della old economy, il cui comportamento è noto agli economisti da oltre due secoli: le aziende capitalistiche nate e cresciute troppo in fretta, grazie all’eccessiva e infondata fiducia che il pubblico e gli investitori gli accordano, rischiano di gettare sul lastrico milioni di investitori e di bruciare immense ricchezze non appena il mercato reale a cui si rivolgono i loro prodotti mostra qualche segnale, anche timido, di incertezza. È sempre stata questa, del resto, la conseguenza delle speculazioni finanziarie.

Di nuovo, in questa crisi, c’era il fatto che la crescita esagerata dei titoli delle aziende che operavano su internet o per internet fu dapprima facilitata e poi messa in crisi proprio dalla velocità della rete telematica globale. Le connessioni telematiche, infatti, avevano avuto conseguenze rivoluzionarie nei mercati borsistici poiché, collegando in tempo reale tutte le Borse del mondo, facevano sì che i mercati finanziari non chiudessero mai e operassero per 24 ore al giorno, tenendo in tal modo sotto costante controllo l’andamento economico delle aziende e delle nazioni. Non solo: la telematica aveva reso possibile a chiunque l’intervento nel mercato finanziario, anche senza mediatori. Sicché ogni piccolo risparmiatore, dotato di un computer e di una connessione ad internet, poteva operare nelle Borse di tutto il mondo, comprare e vendere azioni e obbligazioni, e contribuire così a modificare sensibilmente l’andamento dei titoli.
Tuttavia, proprio questi aspetti rivoluzionari rendevano i mercati finanziari molto fragili, sia perché soggetti alle influenze di milioni di operatori sparsi in tutto il mondo (tra i quali vi erano, ovviamente, soggetti capaci di spostare milioni di dollari in poche ore: banche, grandi aziende, Stati), sia perché la connessione di tutti i mercati finanziari provocava la diffusione in tempi assai rapidi delle speculazioni finanziarie e delle crisi: se a Singapore si verificava un’impennata di fiducia nei confronti di alcuni titoli azionari, e quindi un aumento del loro valore, essa si ripercuoteva in tempi rapidi a Tokyo, in Europa e a New York; ma allo stesso tempo un cedimento dei titoli azionari a Singapore si poteva ripercuotere nell’arco di poche ore in tutte le Borse del mondo, con effetti moltiplicatori che ne amplificavano le conseguenze. I problemi sorti e osservati allora sono presenti, come sappiamo, anche nell’attuale mercato borsistico: un’eredità degli anni Novanta che oggi appare ancor più pericolosa. (continua)

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