giovedì 12 luglio 2012

Chi si ricorda della new economy? - seconda parte


Seconda parte: i crac finanziari



La bolla speculativa della fine degli anni Novanta esplose nel corso del 2000 e i crac finanziari cominciarono a fioccare tra 2000 e 2001. Vediamo qualche esempio. La società RCN, fondata nel febbraio 2000 da Paul Allen (braccio destro di Bill Gates) con l’intento di diffondere collegamenti internet domestici a banda larga, verso la fine del 2001 aveva perso 10 volte il suo valore (la storia delle traversie finanziarie e giudiziarie della RCN è oggi narrata dallo stesso Allen nell’e-book Idea Man. Io, Bill Gates e altre storie. Autobiografia del cofondatore di Microsoft, Milano, Rizzoli Etas, 2011). La Liberty media di John Malone vide andare in bancarotta due società fondate per la diffusione di internet, la Icg e la Teligent. La At home e la Net2-Phone, create dal colosso americano At&t di Michael Armstrong, furono più volte prossime al fallimento a partire dal 2001, tanto da mettere in difficoltà la stessa At&t che nel 2004 ha dovuto vendere la sua divisione di rete mobile: poi, nel 2005, l’intero colosso di San Antonio fu venduto alla SBC (che gli diede il nome attuale di At&t Inc.). Webvan, uno dei portali internet dell’e-commerce più idolatrati nel 2000 (consentiva di fare la spesa via internet), con la famosa bancarotta del 2001 travolse manager famosi, illustri banche d’affari, finanzieri e aziende che avevano puntato su esso per la diffusione del commercio elettronico. Nel 2009 l’azienda, ormai decotta e svalutata, venne acquistata da AmazonFresh che dovette rivedere e delimitare profondamente il servizio offerto.

In Italia il più grosso buco nell’acqua del 2000-2001 è stato forse ePlanet, la società di telecomunicazioni (cellulari, satellite, internet, banda larga) fondata da Angelo Moratti, Paolo Merloni, Luigi Orsi Carbone, Andrea Rocca: per mesi sull’orlo della bancarotta, subì negli anni successivi al 2001 un drastico ridimensionamento aziendale per potersi salvare. Ma altri insuccessi gravissimi hanno conosciuto Seat Pagine Gialle (nel 2001 perse l’89,2% del valore che possedeva al momento del suo collocamento sul mercato), Tim (- 64,5%), Tiscali (- 94,1%), Freedomland (- 93,5%), e.Biscom (- 85,2%), I.Net (- 83,4%) e la tanto acclamata Finmatica, nata nel 1998 dal nulla, nei sottoscala di Salerno, per merito di un paio di ingegneri elettronici che preparavano software e fornivano servizi internet alle aziende. Collocata in Borsa a nemmeno un anno dalla nascita, Finmatica guadagnò rialzi enormi fino al termine del 2000, tanto da venire salutata come modello italiano della new economy; nel 2002 aveva perso il 92,26% del suo valore iniziale, nel 2004 dovette dichiarare il fallimento e portare i libri contabili in tribunale (dati tratti da: CorrierEconomia, supplemento al Corriere della Sera del 10 settembre 2001; Da e.Biscom a Finmatica, tutte le bolle della new economy made in Italy, in http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Da-eBiscom-a-Finmatica-tutte-le-bolle-della-new-economy-made-in-Italy_50524394.html). Scandali e fallimenti che sono stati dimenticati perché oscurati da quello della Parmalat, scoppiato nel  2003, più noto degli altri ma sorto come quelli nella medesima atmosfera di frenetica euforia tecnologico-finanziaria.
Bernie Ebbers all'epoca del successo
borsistico di World Com

Un esempio notissimo di fallimento avvenuto nelle attività legate alla new economy è quello di Bernie Ebbers, di cui si occupò la stampa di tutto il mondo. Ex lattaio del Mississippi, Ebbers era il tipico self-made man che dal nulla era riuscito a creare un impero riunendo nelle proprie mani, dal 1994 in poi, 75 medie e piccole società delle telecomunicazioni di tutto il mondo. Nacque così World Com che, nel campo della telefonia mobile e della connessione ad internet, fece concorrenza per qualche anno a giganti come Enron (di Ken Lay), Vodafone (di Chris Gent), Vivendi (di Jean-Marie Messier). Perciò Ebbers è stato considerato per mesi un profeta della new economy, modello del nuovo imprenditore che avrebbe trasformato il mondo attraverso le nuove tecnologie, guardato dai giovani americani come esempio da imitare. In effetti la sua società, tra 1997 e 1999, vide crescere il valore delle azioni del 180%: il mercato borsistico, fiducioso nei confronti di questa nuova azienda che prometteva grande innovazione tecnologica e grande convenienza per l’utenza, sostenne una bolla speculativa di enormi proporzioni, nella convinzione di veder crescere il valore del proprio investimento. Ma la crisi del mercato delle telecomunicazioni, iniziata nel corso del 2000, travolse Ebbers al punto tale che nel 2002 il consiglio di amministrazione della sua società dovette licenziarlo: licenziato dai suoi stessi dipendenti! Si scoprì poco dopo che egli stesso aveva artificiosamente alimentato la bolla speculativa, acquistando azioni della sua impresa per aumentare la fiducia degli operatori nei confronti di World Com: un giochetto che era costato alla società, nel solo 2000, ben 366 milioni di dollari. Nel 2002 emerse che la società aveva perpetrato una colossale frode contabile di quasi 4 miliardi di dollari per far risultare i conti in attivo, contando per anni su compiacenti coperture politiche dell’amministrazione Clinton e di quella Bush jr. Alla bancarotta seguì così un umiliante processo concluso nel 2006, quando Ebbers iniziò a scontare la condanna a 25 anni in una prigione federale della Louisiana.

Purtroppo il caso di World Com non fu isolato, poiché tra 2000 e 2002 tutte le società legate alla new economy anche se non erano ancora sul lastrico non navigavano in buone acque: dal maggio-giugno 2000 al maggio 2002 il valore di un’azione di Yahoo passò da $ 113,2 a $ 8; di Amazon da 58 a 19,47; di Intel da 57 a 28,6; di Ericcson da 23,7 a 2,38; di Microsoft da 83,6 a 53,26; di Symantec da 70 a 33,6; di Hewlett Packard da 75 a 20; di At&T da 47 a 12; di IBM da 110 a 85. L’indice del NASDAQ, cresciuto nel gennaio 2000 oltre i 5000 punti (record mai più raggiunto in seguito: oggi si trova sotto i 3000 punti), nel maggio 2002 si trovava intorno a quota 1650 (dati presi da Michele Farina, Chi è il più stupido della new economy?, in Sette, n° 20, supplemento al Corriere della sera del 16 maggio 2002, pp. 102-104). A questo fosco panorama si aggiunse nel 2001 il fallimento della compagnia petrolifera Enron il cui colossale crac travolse migliaia tra dipendenti, investitori e politici e produsse un famoso scandalo provocato dalla scoperta di ciò che vi era dietro la bancarotta: corruzione, bilanci truccati, connessioni tra politica ed economia, illegalità, raggiri e truffe politico-finanziarie. La vicenda riguardò una multinazionale di un settore, quello dell’energia, tutt’altro che new; tuttavia, come si comprese alla sua conclusione, essa era stata originata dalla faciloneria gestionale generata dal clima di euforia finanziaria che accompagnò la rivoluzione informatica di fine XX-inizio XXI secolo. Dopo il grave scandalo negli Stati Uniti si cominciò a discutere seriamente di “etica degli affari”.
Philip Kaplan, programmatore "creativo", blogger, musicista

Tra 2000 e 2002 sono diventati talmente tanti i casi di fallimenti di società legate alla new economy, nate dal nulla e cresciute grazie all’irrazionale fiducia del pubblico e dei risparmiatori, che negli Stati Uniti un giovane programmatore, Philip Kaplan, realizzò proprio in quegli anni un sito internet in cui si divertì a catalogare tutti i casi di società della new economy travolte dopo un’iniziale e illusoria crescita. Il nome del sito non lasciava spazio ad equivoci: si chiamava fuckedcompany.com, ovvero “compagnie trombate.com”. Al sito seguì anche un libro (intitolato F’d companies) in cui Kaplan raccontò la storia dei 150 più clamorosi fallimenti della new economy.


Sono passati 10-12 anni da tutti questi eventi. Oggi nessuno ama ricordare l’ingenuo entusiasmo con cui allora si parlava di new economy, perché in troppi hanno azzardato previsioni che, puntualmente, non si sono avverate. Oggi, inoltre, le difficoltà delle economie occidentale provengono anche dalla spietata, e spesso sleale, concorrenza delle aziende cinesi in settori molto tradizionali, come il tessile, il meccanico, la componentistica di base: sarebbe fuori luogo invocare un’economia new in una congiuntura come questa in cui le aziende manifatturiere old style sono costrette a licenziare centinaio di dipendenti. Certo, di imprese che investono nei settori delle telecomunicazioni digitali ce ne sono ancora molte e sicuramente ve ne saranno in futuro. Ma il mondo non è stato reso migliore da esse, la pace non è sbocciata come un fiore laddove si è investito in telematica; gli uomini non sono diventati più altruisti laddove si è seguita la finanza creativa; l’umanità non appare neppure più felice dopo che quasi tutto il mondo è stato interconnesso come Negroponte e Bill Gates desideravano. Di quegli anni rampanti e di quei personaggi senza scrupoli che li hanno alimentati ci è rimasto ben poco, oltre alla consapevolezza di quanto sia sciocco illudersi di potere risolvere facilmente i problemi del mondo grazie ad internet e al mercato borsistico. Questi sono mezzi, non fini in sé; scambiare gli uni con gli altri è una facile tentazione ma è molto pericolosa: la realtà, quella vera, non quella virtuale, è sempre pronta a punirci per le nostre balordaggini. La realtà è sempre old, very old.

martedì 10 luglio 2012

Chi si ricorda della new economy?



Il mito della new economy


Prima parte: la new economy e la bolla speculativa del 2000

La crisi economica attuale, iniziata nel 2008 negli Stati Uniti con il crac del mercato dei mutui sub-prime e poi aggravatasi nel 2011 con la crisi dei debiti sovrani europei, ha forse un’origine nel fenomeno della globalizzazione. Quest’ultimo, a sua volta, ha origini lontane, nella internazionalizzazione degli affari iniziata dopo la seconda guerra mondiale. Oggi tutti, o quasi tutti, si sono scoperti critici della globalizzazione e in Europa c’è persino chi invoca il ritorno al protezionismo doganale per contrastarne gli effetti. Eppure, non più tardi di 10-12 anni fa, vi era un mito opposto ad occupare lo spazio della discussione pubblica: quello della new economy. Qualcuno se la ricorda?

Nicholas Negroponte, informatico statunitense,
fondatore di MediaLab, cofondatore di Wired, autore
nel 1995 del best seller Being Digital
A causa della globalizzazione, e delle opportunità di sviluppo e di guadagno che questa sembrava promettere, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio l’opinione pubblica occidentale fu attraversata da un brivido travolgente: tecnologia telematica, finanza, inventiva, genialità, velocità sembrarono essere i “nuovi valori” della società del futuro. Internet sembrava promettere felicità, benessere e pace nel mondo; la soluzione di ogni problema sembrava provenire dal connubio tra informatica e finanza creativa; il termine globalizzazione suscitava più simpatie che astio tra le nuove generazioni e i giovani, affascinati da queste novità, erano spinti a non considerare più l’arricchimento personale come immorale ma, al contrario, come la giusta ricompensa dell’applicazione del proprio ingegno nei settori più avanzati della moderna economia globale, ovvero l’informatica e la finanza. I guru di questa new wave, come Nicholas Negroponte, sostenevano che presto il vecchio mondo dell’economia “materiale”, sarebbe stato sostituito da un nuovo universo economico “immateriale”, orbitante all’interno delle connessioni telematiche, un mondo in cui uomo e computer avrebbero interagito in modo sempre più efficace e sempre più rapido.
 Non solo la new economy sarebbe stata migliore rispetto alla vecchia economia, non solo sarebbe stata più moderna grazie alla nuova tecnologica, ma avrebbe costruito un mondo meno inquinato e moralmente più pulito, un mondo più giovane, più civile e più pacifico. Questi i miti che circolavano in quei decenni: dalla tecnologia telematica e dalla creatività finanziaria ci si attendeva la risoluzione dei problemi del mondo. La vecchia cultura umanistica non sarebbe servita più a nulla; ogni problema sarebbe stato risolto grazie a due soli strumenti: internet e mercato borsistico.


Così, a partire dagli anni Novanta le azioni emesse dalle aziende che producevano alta tecnologia conobbero un aumento notevole di valore, talvolta al di là di ogni aspettativa ottimistica, perché poterono contare sulla fiducia che il pubblico accordava alle imprese che lavoravano nel campo della telefonia mobile e di internet. Un’inarrestabile ondata di entusiasmo e di ottimismo produsse un’impennata rapidissima, senza precedenti, del valore delle azioni emesse da ogni azienda che potesse vantare qualche relazione con la tecnologia delle telecomunicazioni. Al punto tale che in alcuni mercati borsistici si è dovuto separare l’indice delle azioni collegate a quelle aziende da quello delle azioni collegate ad altri tipi di imprese: già negli anni Ottanta, ad esempio, a Wall Street vi era il listino dei titoli trattati telematicamente, il NASDAQ, che si è separato dal listino principale della Borsa di New York ed anche dal Dow Jones (listino dei 30 principali titoli trattati). Simili listini sono nati negli anni Novanta un po’ in tutte le Borse. Così in Italia è nato il Numtel (Nuovo Mercato delle telecomunicazioni), listino delle aziende della telecomunicazione, che si è staccato dal MiB (listino ufficiale di Milano Borsa), dal MiBtel (come il MiB, ma fondato sulla contrattazione telematica) e dal MiB30 (il Dow Jones italiano). Per questo il pubblico, i mass media e gli operatori economici hanno cominciato a parlare di new economy, intendendo con questo termine tutto il mercato finanziario e l’apparato produttivo collegato alle aziende che operavano in quei settori tecnologici. Difficile negare che abbia contribuito alla nascita di tale ottimismo il mito di internet a cui prima mi riferivo: come dicevo, a questo mito molti, specie tra le nuove generazioni, hanno attribuito compiti e finalità miracolose, quali la possibilità di rendere l’umanità più libera, più ricca, più felice.

In effetti molti di coloro che nel mondo diedero fiducia alle azioni delle aziende start up che investivano nel fenomeno di internet (le cosiddette dot-com) sono riusciti a fare dei buoni affari, alcuni si sono arricchiti, in qualche caso anche in modo notevole (negli USA divennero noti i casi di alcuni giovanissimi utenti di internet che, operando in borsa da casa, misero insieme colossali fortune). Ma la chimera della fortuna proveniente dalla new economy durò poco: nel breve volgere di alcuni mesi (dal marzo del 2000) molte delle aziende a cui era stata accordata troppa fiducia cominciarono a mostrare segni di cedimento; alcune non riuscirono a far fronte alle spese e ai debiti contratti; non poche dovettero chiudere. Accadde con la new economy la stessa cosa che era accaduta nel 1637 in Olanda a causa dell’euforia provocata dal commercio dei tulipani; la stessa cosa accaduta nel 1719 in Europa con la speculazione sui titoli della Mississippi Company; la stessa accaduta nel 1929 a New York con il Dow Jones di Wall Street; la stessa, infine, che sarebbe accaduta nel 2008 con l’entusiasmo per i mutui sub prime. Insomma la new economy mostrò di avere tutti i limiti della old economy, il cui comportamento è noto agli economisti da oltre due secoli: le aziende capitalistiche nate e cresciute troppo in fretta, grazie all’eccessiva e infondata fiducia che il pubblico e gli investitori gli accordano, rischiano di gettare sul lastrico milioni di investitori e di bruciare immense ricchezze non appena il mercato reale a cui si rivolgono i loro prodotti mostra qualche segnale, anche timido, di incertezza. È sempre stata questa, del resto, la conseguenza delle speculazioni finanziarie.

Di nuovo, in questa crisi, c’era il fatto che la crescita esagerata dei titoli delle aziende che operavano su internet o per internet fu dapprima facilitata e poi messa in crisi proprio dalla velocità della rete telematica globale. Le connessioni telematiche, infatti, avevano avuto conseguenze rivoluzionarie nei mercati borsistici poiché, collegando in tempo reale tutte le Borse del mondo, facevano sì che i mercati finanziari non chiudessero mai e operassero per 24 ore al giorno, tenendo in tal modo sotto costante controllo l’andamento economico delle aziende e delle nazioni. Non solo: la telematica aveva reso possibile a chiunque l’intervento nel mercato finanziario, anche senza mediatori. Sicché ogni piccolo risparmiatore, dotato di un computer e di una connessione ad internet, poteva operare nelle Borse di tutto il mondo, comprare e vendere azioni e obbligazioni, e contribuire così a modificare sensibilmente l’andamento dei titoli.
Tuttavia, proprio questi aspetti rivoluzionari rendevano i mercati finanziari molto fragili, sia perché soggetti alle influenze di milioni di operatori sparsi in tutto il mondo (tra i quali vi erano, ovviamente, soggetti capaci di spostare milioni di dollari in poche ore: banche, grandi aziende, Stati), sia perché la connessione di tutti i mercati finanziari provocava la diffusione in tempi assai rapidi delle speculazioni finanziarie e delle crisi: se a Singapore si verificava un’impennata di fiducia nei confronti di alcuni titoli azionari, e quindi un aumento del loro valore, essa si ripercuoteva in tempi rapidi a Tokyo, in Europa e a New York; ma allo stesso tempo un cedimento dei titoli azionari a Singapore si poteva ripercuotere nell’arco di poche ore in tutte le Borse del mondo, con effetti moltiplicatori che ne amplificavano le conseguenze. I problemi sorti e osservati allora sono presenti, come sappiamo, anche nell’attuale mercato borsistico: un’eredità degli anni Novanta che oggi appare ancor più pericolosa. (continua)