sabato 18 agosto 2012

Conclusione: i giovani tra incertezza, solitudine e indifferenza


6a e ultima parte. Conclusione: i giovani di oggi tra incertezza, solitudine e indifferenza.



I dati Iard visti l'altra volta contraddicono la vulgata conformistica che dagli anni Sessanta sentiamo ripetere continuamente dai mass media, ovvero che sono le condizioni economiche a rendere difficile l’ingresso nella vita adulta. Certo, la crisi economica attuale ha reso difficile l’acceso al lavoro (particolarmente in Italia dove le tutele nei confronti del lavoro avvantaggiano quasi esclusivamente le generazioni passate) e forse, se continuerà la spirale negativa, anche le sicurezze che finora le famiglie hanno saputo garantire ai giovani potrebbero essere minacciate in modo grave; ma anche quando le cose andavano bene certi comportamenti giovanili erano presenti, come se essi fossero una tendenza culturale di fondo, poco sensibile al variare delle condizioni materiali. Insomma, se il disagio giovanile c’è, non è più nella direzione del disagio materiale che si deve guardare: forse questo discorso poteva avere un senso 50 anni fa, di certo non oggi. I rapporti Iard insistono piuttosto su tre dimensioni dei giovani di oggi: incertezza, solitudine, indifferenza.

 L’incertezza viene non tanto dalla difficoltà ad inserirsi nel mondo produttivo, ma dalle caratteristiche che questo mondo oggi propone ai giovani: esso richiede disponibilità a modificarsi, a ridefinire continuamente le proprie competenze, a spostarsi da un lavoro all’altro e da un luogo all’altro; l’instabilità lavorativa è da intendersi come temporaneità, brevità delle esperienze, velocità e rapidità nell’adattarsi ad una nuova situazione, capacità di assumere il rischio. Da questa instabilità deriva quella affettiva, la difficoltà a creare relazioni umane e sentimentali durevoli, che servono per costituire un nucleo familiare. Il sociologo Zygmunt Bauman ha definito questa forma di precarietà “modernità liquida”.

La solitudine deriva dalla sensazione di muoversi in un mondo che non promette più molte protezioni sociali, e nel quale non vi sono più neppure molte figure di riferimento alle quali affidarsi per le scelte: scuola, istituzioni, famiglia non sembrano soddisfare l’esigenza del giovane di avere qualcuno su cui contare per decidere. Attenzione: non si tratta di una mancanza della famiglia dal punto di vista delle sue responsabilità economiche, ma semmai della mancanza del ruolo educativo della famiglia. La famiglia è molto presente dal punto di vista materiale, svolge un ruolo di soddisfazione dei bisogni materiali e di consumo dei giovani, anzi spesso sollecita e incentiva bisogni e consumi. Ma i genitori di oggi, almeno quelli che hanno figli con meno di 15 anni, tendono a sfuggire al loro ruolo di modello comportamentale e a quello di guida educativa. I genitori, più sono giovani, meno sono presenti dal punto di vista educativo, ruolo considerato vecchio e non al passo con i tempi: anche i genitori preferiscono, al vecchio ruolo dell’educatore, l’affermazione della propria personalità in altri ambiti, come lo sport, il fitness, il divertimento, la tecnologia, i viaggi, le vacanze e così via. Sono genitori, quindi, che si sono assimilati ai giovani, mentre un tempo erano i giovani che chiedevano di essere assimilati al mondo dei genitori. Questa latitanza educativa della famiglia si somma ad una generale latitanza del ruolo degli adulti nella società odierna: essendosi dilatata a dismisura la nozione di giovane, e raccogliendo essa al suo interno praticamente quasi tutte le classi di età, forse con la sola esclusione, per ora, degli ultrasettantenni, è ovvio che nessuno si qualifichi più come adulto e in tal modo è venuta meno la funzione dell’adulto: quella funzione che dà stabilità, sicurezza, saggezza, equilibrio, oltreché protezione. Per tutte queste ragioni sono in crescita i giovani che denunciano una condizione di solitudine.

Infine l’indifferenza. Anche qui occorre fare attenzione: i giovani di oggi non sono indifferenti ai valori in senso assoluto, ma semmai interpretano i valori, anche quelli più tradizionali, in senso ultra-individuale. Al primo posto, nella gerarchia dei valori dei giovani di oggi vi sono quelli connessi alla vita individuale: amicizia, amore, famiglia, carriera e lavoro, autorealizzazione, ottenimento di una vita confortevole e agiata. Subito dopo vi sono i valori di tipo evasivo, collegati alle attività sportive, allo svago e al tempo libero, al divertirsi e al godersi la vita in modo spensierato. Per ultimo vi sono i valori legati alla vita collettiva e all’impegno personale: solidarietà, libertà, democrazia, patria; attività politica, impegno religioso, impegno sociale, studio e interessi culturali. I valori che interessano di più, quindi, sono quelli collegati alla sfera della socialità ristretta e della vita privata, a scapito soprattutto dell’impegno collettivo. 

Anche il lavoro o la carriera non sono apprezzati per se stessi, o perché in essi si vede un mezzo concreto per fornire il proprio contributo alla civiltà e al suo progresso, non vi è una diffusa etica del lavoro tra i giovani di oggi: lavoro e carriera sono apprezzati perché servono per avere i mezzi necessari per ottenere ciò che veramente conta, ovvero la vita di relazione con gli amici, il divertimento, il consumo, obiettivi al cui raggiungimento si affida l’autorealizzazione personale. I valori collettivi, come la libertà o la democrazia, o quelli relativi all’impegno sociale, come la solidarietà, non mancano nell’universo etico dei giovani, ma sono visti non tanto come virtù civiche che comportano qualche sacrificio, né come conquiste collettive, ma come valori che servono a definire meglio la propria individualità: essi appaiono come diritti da far valere verso gli altri, non come dovere verso gli altri. 
Anche i valori collettivi, insomma, sono declinati in senso ultraindividuale, servono per la difesa della propria socialità ristretta, per definire meglio il proprio contorno sociale, quello in cui si vive, il nucleo delle proprie relazioni primarie, il proprio bozzolo. Se vi è adesione ad ideologie forti, come la simpatia verso partiti estremi o movimenti di contestazione radicale, tali scelte appaiono più come nicchie mitologiche in cui rifugiarsi per trovarvi certezze e protezione; ugualmente dicasi per la scelta religiosa (quasi l’80% si dichiara cattolico): essa appare come un modo per rafforzare la propria identità personale, per trovarvi conforto e sicurezza, per cercarvi solidarietà umana e amicale, insomma per stare meglio. Né l’impegno politico, né quello religioso vengono visti come scelte obbliganti verso la società e verso gli altri tali da impegnare il singolo a scelte di rinuncia o di sacrificio personale, scelte che vengono percepite come “uno stare peggio, uno stare male”. Quindi, più che di indifferenza verso i valori, bisognerebbe parlare per i giovani di oggi di trionfo della sfera personale e individuale dei valori, sfera che si dirige fortemente verso l’egotismo (ovvero verso il giudicare il benessere personale l’unico criterio di giudizio morale e criterio di orientamento dell’azione). Ne consegue un insieme di atteggiamenti e di orientamenti che sembra sempre più rinserrarsi nella ristretta cerchia degli affetti sicuri, delle certezze che derivano solo dallo stare insieme a chi condivide gli stessi giudizi, gli stessi orientamenti, le stesse mode, gli stessi gusti, lo stesso ambiente sociale.
Anche l'uso di internet non sfugge alla tendenza di ricerca dello svago:
questo grafico, tratto da una ricerca del Pew Reserch Center, mostra il
comportamento degli utenti americani di internet diviso per classi di età. Il 53%
dei giovani tra 18 e 29 anni usa internet per lo più per svago.
Incertezza, solitudine e indifferenza spiegano il rapido diffondersi, amplificato dai mezzi di comunicazione, di atteggiamenti eccessivi e smodati da un lato e dall’altro della ricerca continua del gruppo, del branco, della compagnia. La prima cosa è il risultato del desiderio di affermazione e di protagonismo, mete ritenute irrinunciabili per l’autorealizzazione e per l’affermazione all’interno del proprio gruppo; la seconda, scambiata erroneamente dagli adulti come “capacità di socializzazione”, corrisponde alla ricerca di sicurezza, di sostegno e di certezze che non ci si sente in grado di costruire da soli, basandosi sulle proprie forze e capacità.
Sono dati poco incoraggianti, soprattutto perché ci mostrano una gioventù sempre più edonistica, sempre più sfiduciata nei confronti delle istituzioni e dei valori collettivi, sempre più conformista rispetto ai mass media, sempre più relativista in fatto di valori (il 54% dei giovani nel 6° rapporto afferma che “nessuna scelta è mai per sempre”), eppure sempre più alla ricerca di sicurezze assolute e sempre più incapace di progettare il proprio futuro, sia perché la dimensione del presente immediato è quella che le interessa, sia perché è disorientata da un mondo che si allarga sempre più e che sembra non dare alcuna garanzia riguardo al futuro, mentre le generazioni precedenti hanno goduto di molte certezze.
Franco Garelli

Anni fa Franco Garelli, un sociologo italiano, andando un po’ controcorrente, scrisse che l’uso del termine disagio riferito ai giovani è diventato di moda in Italia, una sorta di imperativo culturale, uno stereotipo che si deve seguire per essere ascoltati (Franco Garelli, Stereotipi sui giovani e questione educativa, in Il Mulino, n. 385, a. XLVIII, settembre-ottobre 1999, pp. 871-881). La conseguenza più deleteria di questa moda è che essa finisce per sollecitare in tutti (istituzioni, educatori, famiglia mass media) un eccesso di protezione e di prudenza nei confronti dei giovani che non aiuta la loro maturazione: rinvio delle scelte, inserimento morbido e ovattato nella società, tutela per evitare ogni rischio e ogni difficoltà, tutto ciò in Italia è diventato obbligatorio proporlo ogni volta che si parla dei giovani perché, si dice, così li si aiuta a superare il disagio della loro condizione. Invece in questo modo, afferma Garelli, il “disagio” si produce davvero, poiché l’eccesso di prudenza e di protezione favorisce la deresponsabilizzazione e la passività sociale. Con questo Garelli non vuol dire che i giovani non abbiano problemi da risolvere, ma che questi problemi sono tutti risolvibili e non sono differenti da quelli che da sempre ha affrontato il giovane per diventare adulto. Il disagio, quindi, è risolvibile. In altre società, ad esempio quelle anglosassoni, i giovani sono sollecitati da messaggi e imperativi culturali come “lasciare casa in fretta”, tagliare il cordone ombelicale con la famiglia di origine, non per ripudiarla ma per costruire un proprio cammino di vita e di esperienza. Da noi, invece, domina la prudenza e la tendenza a proteggere a tempo indeterminato i propri figli: così si crea dipendenza, si prolunga l’adolescenza, si ritardano le scelte adulte, si genera passività e abulia, indifferenza e noia. Una condizione che produce a sua volta quell’insofferenza rabbiosa e maleducata che, non indirizzata verso mete costruttive, può sfociare in conati improvvisi di violenza distruttiva e autodistruttiva: resa particolarmente pericolosa dai molti mezzi su cui oggi possono contare i giovani, e dalla tendenza all’assoluzione che caratterizza sia il sistema educativo che quello della comunicazione. Garelli conclude con una proposta: che gli adulti facciano davvero gli adulti e la smettano di scimmiottare gli adolescenti, poiché il problema di fondo, in Italia, è proprio questo: l’estinzione della categoria sociologica dell’adulto.

Essere adulto vuol dire sapersi assumere responsabilità, naturalmente, ma soprattutto essere un modello forte per i giovani, ed esserlo praticando i valori che si predicano: un insegnante, un genitore, un allenatore sportivo che predicano onestà, rigore, impegno, sacrificio e che poi si muovono e si comportano come i propri figli e alunni, scansando impegno e sacrifico attraverso mille furberie, diventano figure scialbe, prive di forza, incapaci di proporsi per la propria esemplarità, perché si confondono con i modelli giovanili. Insomma, è l’adulto che manca nella società italiana, poiché quelli che anagraficamente dovrebbero svolgere questo ruolo risultano, come dice Garelli, “emotivamente inadatti”. Inutile fare corsi e progetti sulle problematiche educative che riguardano i giovani (l’educazione sessuale, l’educazione alla legalità, l’educazione al rispetto degli altri…): sono tutti interventi per lo più informativi, nati dall’opinione diffusa che per educare a quei problemi “occorra parlarne”, come se l’informazione sia già un fatto educativo. Mentre l’educazione emerge, quando emerge, da un lungo processo di contatto con adulti che cercano di seguire valori nella vita quotidiana, dalla osservazione dei loro comportamenti: se stimolati da queste persone, i giovani impareranno poi a cercare da soli il modo per dare forma alla propria volontà di realizzazione, anziché cercare di fare un’improbabile rivoluzione che, avendo come obiettivo implicito quello di essere ancora più coccolati e di ricevere ancora più indulgenza giovanilistica, è destinata ad essere sempre “spuntata”.
Giovani "indignados" alle recenti manifestazioni avvenute in Spagna
Se proprio i giovani italiani di oggi volessero essere rivoluzionari “duri e puri”, l’unica rivoluzione che mi sento di suggerir loro è di imparare ad essere autonomi, di saper far da soli, di non temere l’assunzione delle responsabilità: comportamenti che implicano sia la capacità di rinunciare alle comodità che il mondo degli adulti può offrire loro, sia quella di sapersi liberare dall’obbligo conformistico di seguire inebetiti le mode del momento. Autonomia e libertà comportano la forza, quando serve, di essere controcorrente. Gli adulti italiani, da parte loro, dovrebbero impegnarsi di più nell’educazione dei propri figli, impegno che implica l’essere pronti a sanzionare comportamenti sbagliati, l’essere pronti a dire di “no” quando serve. Ma soprattutto implica la capacità di praticare i valori, di sapersi distinguere dai giovani, di sapere riconoscere e accettare le proprie responsabilità, liberandosi dall’ossessione di inseguire le mode giovanili per ingannare il tempo che passa e per non fare i conti con la propria età. I giovani hanno il diritto (e forse anche il dovere) di confrontarsi e di scontrarsi con gli adulti, ovvero con chi è distinto e diverso dal proprio mondo. Gli adulti hanno il dovere (e forse anche il diritto) di insegnare e di far rispettare regole e norme di comportamento, senza le quali non esisterebbe alcun tipo di società. Il conflitto tra generazioni è già in questa semplice ma vitale dialettica, senza andare alla ricerca di ideologie “giovaniliste” per amplificarlo o per esorcizzarlo. E ogni conflitto generazionale dovrebbe terminare con i giovani che sostituiscono i vecchi e con questi ultimi che sanno farsi da parte quando arriva il momento. Se vogliamo essere un “paese normale” in cui convivano giovani, adulti e vecchi dobbiamo sbrigarci a comprendere queste semplici leggi. Prima che sia troppo tardi.

lunedì 13 agosto 2012

Giovani e giovanilismo: gli ultimi trent'anni

Chiedo due volte scusa ai miei (eroici) lettori. Scusa per aver lasciato trascorrere così tanto tempo dall'ultimo aggiornamento; scusa per un errore inserito nell'ultimo post pubblicato. Per il primo fatto forse posso invocare un'attenuante, ovvero gli impegni personali che non mi hanno consentito di seguire il blog come avrei voluto. Per il secondo fatto, l'errore inserito nel post del 5 agosto, vedete voi se assolvermi o meno: al termine di quell'articolo avevo scritto che la prossima parte sulla questione dei giovani (quella che pubblico oggi) sarebbe stata l'ultima; invece avrei dovuto scrivere "penultima". Insomma, oltre a quella di oggi dovrete sorbirvi un'altra parte! Ma, come dicevo all'inizio, so che siete eroici... 


5a parte - Gli ultimi 30 anni: il giovane diviene categoria sociologica

Non è un caso che, finito il movimento del ’77, inizi, nei comportamenti giovanili, il cosiddetto “riflusso nel privato”, ovvero la coltivazione del consumo, il perseguimento dell’affermazione personale, il narcisismo. Il termine “giovane” diviene definitivamente una categoria sociologica poiché, come dicono le ricerche sociali sulla condizione giovanile condotte dagli anni Ottanta in poi, ormai è giovane il dodicenne che vive con ansia i temi e i problemi prima appartenenti ad un’età più avanzata (relazioni sessuali, autonomia di vita, consumi); ma lo è anche il quarantenne che non vuole integrarsi nella vita adulta e ne rifiuta riti e istituzioni: il matrimonio, la stabilità di coppia, la routine del lavoro. Il lavoro in genere non è visto come luogo di affermazione personale, ma come passaggio obbligato per ottenere i mezzi economici che servono per il consumo e per il divertimento, vere mete esistenziali della nuova condizione giovanile.
Fitness e divertimento: mete esistenziali per giovani e giovanilisti di oggi
Così, la condizione del giovane si è enormemente estesa, andando ben oltre la soglia dei 50 anni, poiché il sistema delle comunicazioni di massa (pubblicità, il cinema, la televisione, internet) e le pratiche quotidiane da esso divulgate (lo sport, l’igienismo, il fitness, il culto del corpo, la cosmesi ecc.) impongono la giovinezza come modo dell’apparire, come superficie fisica, come qualità dell’aspetto, non come classificazione anagrafica. Si è giovani se nel modo di apparire, di atteggiarsi, di vestire, di parlare, di pensare si è diversi rispetto agli anziani, categoria con la quale oggi nessuno vuole più identificarsi. Questa è la diversità del giovane la quale diviene categoria sociologica indicante un certo tipo di individuo, trasgressivo, dinamico, relativista nei valori, aggressivo e un pochino arrogante. Dagli anni Cinquanta in poi la condizione giovanile ha fatto passi da gigante: prima ribelle, poi contestatrice, quindi marginale e diversa; ora la diversità giovanile è divenuta un valore aggiunto capace di generare successo, poiché la capacità di trasgressione che un giovane può portare in un’attività produttiva si trasforma in guadagno immediato. Marginale, oggi, è la società “vecchia”: non solo e non tanto gli anziani (che, anzi, numericamente sono in continuo aumento nelle società occidentali: vedere le piramidi della popolazione italiana in fondo all'articolo) ma soprattutto ciò che è regolare, ordinato, consequenziale e che pretende di trasmettere un sapere tradizionale: per questo scuola, famiglia, politica, istituzioni sono poco amate da chi è giovane e da chi si ritiene ancora tale, anche se ha superato la soglia dei cinquant’anni.

Ma allora il disagio giovanile non esiste? Cerchiamo di capirlo leggendo alcune indicazioni contenute nel 5°, nel 6° e nel 7° rapporto Iard, basati su ricerche condotte rispettivamente nel 2002, nel 2006 e nel 2010 (il 7° rapporto relativo al 2010 non è stato ancora pubblicato; parti di esso si possono trovare in internet, ad es. in http://www.degiovanimento.com/download/rapporto.pdf). L’istituto Iard (http://www.istitutoiard.it/), nato a Milano nel 1961, esegue ogni 4 anni, dal 1984, un’indagine nazionale sulla condizione giovanile in Italia; i risultati di questa indagine vengono pubblicati dalla casa editrice Il Mulino di Bologna con il titolo Rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia (per il sesto rapporto del 2006 vedere la scheda di presentazione in http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=11895). I rapporti Iard sono rivolti a genitori, educatori, operatori e politici che si confrontano quotidianamente con i giovani. 
Il sesto Rapporto Iard
pubblicato da Il Mulino
Dagli ultimi due rapporti emerge che i giovani italiani non sono emarginati o sradicati, ma sono in perfetta sintonia con il loro tempo, anzi le tendenze che si manifestano nelle classi di età prese in considerazione (dai 15 ai 34 anni) si diffondono in tutta la popolazione italiana. Tendenze comuni all’intera popolazione italiana sono ad esempio: la ricerca dell’autorealizzazione attraverso il consumo; il ruolo importante assunto dallo svago per stabilire relazioni e identità; infine la lenta transizione verso l’età adulta, lentezza amplificata dall’allungamento dei tempi di permanenza nel sistema dell’istruzione (fino a vent’anni i giovani che escono dal sistema scolastico sono una minoranza), dalla tendenza a rimanere fino oltre la soglia dei trent’anni nella stessa abitazione con i genitori (solo il 30% dei giovani tra 25 e 29 anni esce dalla casa dei genitori; ben un terzo dei giovani tra 30 e 34 anni vive ancora con i genitori), dalle difficoltà connesse con l’accesso nel mondo del lavoro. 
In Italia 1/3 dei giovani tra i 30 e i 34 anni vive ancora con i genitori
Il dato relativo alla disoccupazione giovanile va preso con cautela, perché la situazione del lavoro giovanile è cambiata più volte negli ultimi trent’anni. Dal 1996 al 2006 la disoccupazione giovanile è diminuita: i giovani lavoratori tra 18 e 20 anni in quel periodo sono raddoppiati (nel ’96 ne lavorava solo il 10%, nel 2006 21%); di quelli tra 21 e 29 anni nel 2006 ne lavorava il 39% e i giovani tra 30 e 34 anni costituivano in quell’anno il 57% della forza lavoro. In quel decennio la tendenza del mercato del lavoro è stata di assorbimento della forza lavoro giovanile, non di espulsione. 
Oggi, invece, le cose sono cambiate: dall’inizio dell’attuale crisi (2008) al corrente anno, sono stati i giovani a pagare in Italia il prezzo più elevato, dal momento che la disoccupazione di coloro che hanno un’età compresa tra i 15 e i 24 anni ha superato il livello record del 36%. Il sistema economico, in momenti di estrema difficoltà come quello che stiamo vivendo, tende a tutelare i lavoratori con più esperienza e maggiore anzianità, piuttosto che investire in innovazione e gioventù, fattori di crescita ma anche di rischio. Anche negli altri paesi europei, sia pure con differenze dovute al livello di sviluppo e alle politiche seguite, si vive una situazione simile. In Italia la disoccupazione giovanile appare più allarmante perché nel nostro paese l'età media in ogni ambito lavorativo è la più elevata della UE, e la stessa classe dirigente appare come una gerontocrazia impermeabile al ricambio generazionale. Strano paese il nostro: nessuno ama l'appellativo di "vecchio", tutti si sentono "giovani", ma i giovani veri non hanno spazio... 

Malgrado i cambiamenti del mercato del lavoro, ciò che tra i giovani non è cambiata è la tendenza a ritardare il momento della procreazione di un figlio: oggi, a causa della crisi, i tempi per la formazione di una famiglia si sono ovviamente allungati, ma già nel periodo 1996-2006, quando i tempi per trovare un lavoro, una volta usciti dalla scuola, erano molto più brevi, rimanevano sempre lunghi quelli che trascorrevano tra l’acquisizione di un lavoro e la formazione della famiglia: segno evidente che sono le responsabilità della vita adulta ad essere spostate sempre più avanti nel tempo. Le cinque tappe della transizione alla vita adulta (conclusione degli studi, ingresso nel mondo del lavoro, uscita di casa, formazione di una nuova famiglia, nascita di un figlio), insomma, si sono allungate molto e si rende sempre più evidente la tendenza a procrastinare le scelte della tappa successiva. Non a caso gli ultimi rapporti Iard (in particolare il VI del 2006) sottolineano che i giovani italiani si dichiarano sostanzialmente soddisfatti della loro vita attuale (circoscritta al “piccolo” dell’ambiente familiare e al benessere immediato e quotidiano che questo è in grado di garantire), mentre vedono la sfida del crescere come un evento lontano che interesserà forse gli anni successivi all’università. (5 – continua. La prossima sarà l’ultima parte: giuro)

La piramide della popolazione italiana: confronti tra 1911, 2001, 2011