giovedì 23 agosto 2012

Farla finita con l'Europa?


USCIRE DALL'EURO E FARLA FINITA CON L’EUROPA?
Uno scenario fantapolitico.

Ma davvero vogliamo farla finita con l’Europa? Davvero vogliamo uscire dall’euro e far sì che ognuno, ogni stato nazionale voglio dire, segua la propria politica, interna ed estera, come vuole? E proprio questo che vogliamo?

25 marzo 1957: la firma dei Trattati di Roma con cui nasceva la CEE

Il cancelliere tedesco
Konrad Adenauer (1876-1967),
Robert Schuman (1886-1963)
Presidente del primo
Parlamento europeo
Intendiamoci: non sono mai stato entusiasta dell’Europa unita fin qui realizzata. Nata nel 1957 con i Trattati di Roma, per impedire (non dimentichiamolo) la ricaduta in guerre e totalitarismi, per generare un contesto di prosperità e libertà in un continente devastato da più di 30 anni di dittature e guerre, l’Europa federale sognata da Jean Monnet e Robert Schuman, da Konrad Adenauer e Paul-Henri Spaak, da Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli è diventata nel tempo una sovrastruttura burocratica, interessata a creare un mercato di merci e capitali protetto rispetto all’esterno, libero al suo interno ma sostanzialmente privo di reale potere politico. 

Jean Monnet (1888-1979),
Primo presidente della CECA
Altiero Spinelli (1907-1986), Commissario
europeo dal 1973 al 1976

Così, il direttorio di Bruxelles che ha governato la UE è divenuto sempre più lontano dai sentimenti della gente comune, sempre più in conflitto con i loro interessi reali, sempre più sottratto alle forme del controllo democratico. A parte la libera circolazione di merci, capitali e persone, l’altra realizzazione di questo caravanserraglio della burocrazia europea è stata la moneta unica, salutata dai tecnocrati alla vigilia del XXI secolo come la soluzione a tutti i nostri mali. 
La sede del Parlamento europeo a Bruxelles

Chi scrive non era entusiasta allora di questa costruzione puramente economico-finanziaria, né lo è ora: la moneta unica non ci ha reso più europei, né hanno saputo farlo il mercato e la libertà di muoversi senza passaporto in lungo e in largo per il continente. Probabilmente ci sono profonde ragioni storico-culturali per cui non siamo diventati europei, ragioni ricordate in modo acuto da Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale del Corriere della sera del 25 luglio scorso (Un’antica diversità. Europa tedesca e mediterranea, vedilo qui: http://archiviostorico.corriere.it/2012/luglio/25/ANTICA_DIVERSITA_Europa_Tedesca_Mediterranea_co_9_120725096.shtml). Italiani, spagnoli, portoghesi, greci da un lato sono profondamente diversi tra loro e ancora di più lo sono rispetto a francesi, tedeschi, inglesi, scandinavi e olandesi dall’altro. Siamo profondamente diversi nella cultura, nei valori, negli interessi economici e nell’organizzazione sociale. Forse è anche un bene che queste differenze rimangano e forse è persino poco auspicabile un potere che controlli un intero continente, poiché non potrebbe che essere lontano, burocratico, tecnocratico. Più è esteso il territorio su cui un potere ha giurisdizione, più è difficile, per chi vive in esso, tenere quel potere sotto il controllo di procedure democratiche. Per tutte queste ragioni ho sempre rivolto molte critiche alla costruzione europea fin qui realizzata, e ho sempre accolto con scetticismo la promessa della cittadinanza europea e l’insopportabile retorica politically correct che l’ha accompagnata negli ultimi 30 anni.
La sede del Parlamento europeo a Strasburgo

Eppure, oggi dovremmo riconoscere che i rischi connessi con la fine dell’Unione europea, o anche soltanto con l’avvio di una sua parziale disgregazione, potrebbero essere molto gravi. Proviamo ad utilizzare un po’ di immaginazione e vediamo quel che potrebbe accadere se un simile scenario si avverasse. Costruiamo uno scenario fantapolitico sulla base delle conoscenze delle passate e delle recenti crisi economiche e politiche. Vediamo.

Supponiamo che l’Italia (o la Grecia, o la Spagna, o il Portogallo: insomma uno dei paesi più deboli dell’Europa occidentale) esca dall’eurozona; dopo l’uscita si tornerebbe alla moneta nazionale precedente, la lira nel caso dell’Italia. 
In azzurro la zona euro
La moneta sarebbe debolissima, ovviamente, perché l’uscita dall’euro è avvenuta appunto per l’incapacità di sostenere i parametri relativi ai rapporti deficit-pil e debito pubblico-pil. La debolezza della moneta renderebbe poco redditizi gli investimenti dall’estero, sicché gli investitori stranieri scapperebbero a gambe levate, lasciando centinaia di aziende sul lastrico. Rimarrebbero gli investitori nostrani: poiché la competitività delle aziende italiane sul piano internazionale è bassissima, a questi non rimarrebbe che chiedere alla Banca d’Italia di svalutare ulteriormente la lira, producendo un’inflazione a due cifre, simile o peggiore di quella degli anni Settanta, per recuperare un po’ di capacità competitiva. Risultato di questa operazione: abbattimento drastico del potere d’acquisto degli stipendi, assenza totale di investimenti in innovazione e ricerca (poiché – come accaduto già 40 anni fa – si preferirebbe contare sul basso costo dei nostri prodotti causato dalla svalutazione, piuttosto che sulla loro qualità), aumento del ritardo competitivo dell’Italia rispetto alle nazioni più sviluppate. Naturalmente il mercato a disposizione dei nostri prodotti sarebbe ristrettissimo: pochissimo export e molte importazioni, dato che la mancanza di fonti energetiche ci condannerebbe a continuare ad importare petrolio e carbone a costi altissimi a causa della debolezza della lira. Praticamente la nostra industria venderebbe prodotti di scarsissima qualità quasi esclusivamente a squattrinati clienti italiani. Bassa produzione e bassissima produttività genererebbero un gettito fiscale miserrimo: servizi pubblici, sistemi del welfare, stipendi dei dipendenti pubblici si ridurrebbero fino quasi a scomparire. Per sostenersi, la spesa pubblica dovrebbe aumentare la tassazione in modo spietato e soprattutto ricorrere all’aumento del debito pubblico, promettendo tassi di interesse su BOT e BTP superiori a quelli degli anni Settanta. Sarebbe così distrutta la possibilità di investire in Borsa e verrebbe eliminata di fatto ogni forma di mercato finanziario. Le nostre aziende dovrebbero ridursi a piccole manifatture artigianali a gestione familiare, poiché non potrebbero reggere i costi degli investimenti senza un sistema finanziario capace di anticipare i capitali.

Queste trasformazioni economiche, in un contesto in cui la globalizzazione continuerebbe a richiedere grandi capacità concorrenziali, avrebbe presto conseguenze politiche di rilievo. Anche senza ipotizzare un effetto domino (l’uscita dell’Italia potrebbe causare quella della Spagna, del Portogallo e della Grecia; a queste seguirebbero Francia, Olanda, Belgio e Germania…), potrebbe accadere quanto segue: o alcune regioni italiane si staccherebbero dal resto della nazione, sperando di poter contare su minori costi e maggiore efficienza; o si cercherebbe di fronteggiare le difficoltà economiche nazionali introducendo elevatissimi dazi doganali per colpire tutte le merci importate. 

Nel primo caso le regioni secessioniste sarebbero inevitabilmente attratte da organismi statali più vasti e contigui dal punto di vista geografico: Lombardia, Veneto, Friuli e Trentino si unirebbero con Francia, Austria, Germania o Slovenia; il centro-sud farebbe coalizione con qualche compagine statale mediterranea (Spagna, Grecia; oppure Egitto, Libia, Tunisia, Marocco, Algeria…). L’Italia, insomma, scomparirebbe, con giubilo dei leghisti e di quanti negli ultimi 40-50 anni hanno inveito contro il sentimento di appartenenza alla nazione. Nel secondo caso, quello dei dazi doganali, la nostra nazione salverebbe per un po’ l’unità, ma l’economia diventerebbe simile a quella del Giappone prima della rivoluzione industriale: isolata dal resto del mondo, povera, tradizionalista, depressa; capace di produrre merci a bassissimo contenuto tecnologico e poco remunerative. Potrebbe anche capitare che, sollecitate dal comportamento duramente isolazionista dell’Italia, le altre nazione rispondano con un analogo isolazionismo, elevando anch’esse forti dazi sulle importazioni: l’economia globalizzata cesserebbe di esistere e al suo posto avremmo un sistema di mercati segmentati, come negli anni Trenta del Novecento, gli uni contro gli altri, pronti a scannarsi pur di salvare uno 0,1 % di pil.

Lo sbocco molto probabile di uno scenario come questo (apocalittico, lo ammetto, ma non del tutto irrealistico) sarebbe la guerra: il ricorso alle armi e alla vecchia “politica di potenza” sarebbe infatti l’ultima risorsa per nazioni ormai svincolate da qualsiasi obbligo di solidarietà e bisognose comunque di cercare le risorse per mantenersi. La guerra tornerebbe in Europa e si allargherebbe al resto del mondo ancora una volta come 70 anni fa.

È uno scenario pessimistico quello che ho dipinto. Ma, come dicevo, non così irrealistico. Nella storia situazioni di crisi, arresto e arretramento della civiltà, anche più tragiche di quella da me descritta, si sono verificate spesso, e sempre in modo imprevisto. Davvero crediamo di essere pronti ad affrontare un simile rischio?
I simboli di Alba dorata, il movimento
 nazionalista e nazista
diffusosi in Grecia di recente
Credo che ci sia solo un modo per evitare un esito così drammatico alla crisi che stiamo vivendo: rafforzare le strutture federali dell’Europa, non indebolirle o, peggio, dissolverle nei rinascenti nazionalismi aggressivi.

Ciò che da sempre trasforma un anonimo ammasso di uomini in cittadini, che in modo solidale condividono e rispettano norme comuni, è la presenza di istituzioni politiche, ovvero di uno Stato. L’assenza di vere istituzioni politiche federali sovrane ha reso inevitabilmente l’Unione Europea sottomessa ai veti delle potenze via via egemoni nel continente: la Francia, la Gran Bretagna e, soprattutto, la Germania. Perché esista uno Stato sovrano, dotato della capacità coercitiva di far rispettare le proprie decisioni, deve esistere il monopolio della forza legittima. Quest’ultimo, a sua volta, è il prodotto di una comune organizzazione difensiva: progetto, quello di costruire una Comunità Europea di Difesa, che, com’è noto, naufragò negli anni Cinquanta e mai più venne ripreso e discusso. Finché è durata la guerra fredda forse esso era superfluo, visto il ruolo svolto in quel contesto dalla Nato. Ma oggi, a distanza di oltre 20 anni dalla fine della guerra fredda, l’Europa deve dotarsi di una propria forza militare comune, se vuole avere il potere reale di uno Stato federale sovrano: infatti, la delicatezza politica che tale iniziativa avrebbe, obbligherebbe i cittadini europei ad accettare l’esistenza di strutture politiche sovranazionali alle quali gli Stati nazionali dovrebbero cedere gran parte della propria sovranità. Con l’acquisto della piena sovranità, la UE otterrebbe due risultati: innanzitutto sottrarrebbe al governo tedesco e alla Bundesbank il potere di veto che di fatto oggi hanno in ogni decisione finanziaria (ad esempio lo scudo anti-spread, l’acquisto dei titoli di Stato delle singole nazioni da parte della Bce, l’emissione di Eurobond e così via); in secondo luogo avrebbe reali poteri di programmazione economico-finanziaria a beneficio di tutti i membri della Comunità.

Qualsiasi decisione si debba prendere in questo momento per risolvere la crisi dei debiti sovrani di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, quella decisione deve essere presa da istituzioni federali forti: per uscire dalla crisi, che ci piaccia o no, dobbiamo avere più Europa, non meno Europa.