martedì 28 agosto 2012

Internet: totalitarismo digitale?


L’INGANNO CORRE IN RETE



Sapete cos’è un fake? È un utente dalla falsa identità che orienta la discussione in un forum o in un blog su Internet. E un troll? È un utente reclutato appositamente per provocare gli interlocutori e avvelenare il dibattito su Internet. E un influencer? Un utente utilizzato per influenzare gli altri. Sono tutte figure ben conosciute da chi usa la rete con finalità di orientamento dell’opinione pubblica, per motivi politici o di marketing. Sono meccanismi ben noti, ad esempio, al pubblicitario Davide Casaleggio, fratello di Gianroberto con cui ha fondato la Casaleggio Associati, l’agenzia pubblicitaria che ha organizzato il look telematico di Beppe Grillo. Davide ha scritto nel 2008 un libro intitolato Tu sei rete in cui spiega le tante possibilità di impiego di Internet a fini benefici, ma anche di marketing o di orientamento della pubblica opinione. “La vita e l’evoluzione delle reti” scrive Davide Casaleggio nel suo libro (e nel suo blog: http://www.casaleggio.it/2008/12/tu_sei_rete.php) “seguono leggi […] precise e la conoscenza di queste regole ci permette di utilizzare le reti a nostro vantaggio. Tutto è diventato una rete da studiare, modellare, modificare”.

Diffusione di Internet nel mondo

Doug Engelbart oggi
Negli anni Novanta, quando Internet cominciò a svilupparsi, molti dei suoi estimatori e sacerdoti profetizzarono un mondo più libero e più democratico grazie all’avvento della Rete. L’invenzione del linguaggio html è del 1990; la scomparsa di Arpanet, sostituita dal Web, del 1991; tra il ’90 e il ’96 si collegarono in rete 10 milioni di computer in tutto il mondo; oggi sono oltre 2 miliardi. Nel 1997 Douglas Engelbart – ricercatore dello Stanford Research Institute e inventore del mouse - sosteneva con enfasi che “in 20 o 30 anni potremo tenere nelle nostre mani una quantità di conoscenza elettronica pari a quella contenuta in una città, o addirittura nel mondo intero” (cit. in Carlo Gubitosa, Hacker, scienziati e pionieri, Roma, Stampalternativa, 2007, p.93).


Edgar Morin
Questi toni enfatici a proposito di Internet non sono venuti meno neppure in seguito. Il sociologo Edgar Morin nel 2009 affermò che Internet è facilitatore e promotore di una coscienza planetaria, di un sentimento di appartenenza alla cittadinanza della Terra: Internet, secondo Morin, può risolvere il “problema della Pace” (vedi: http://www.meetthemediaguru.org/index.php/11/edgar-morin-la-coscienza-planetaria-di-internet/).
Nicholas Negroponte – cofondatore di Wired, tra i più noti guru di Internet, autore di Being digital – di recente ha usato espressioni simili: in un'intervista sul Corriere della sera (14 gennaio 2012) ha detto: “E’ Internet il vero promotore di pace, anzi, come dico sempre è un’arma di educazione alla pace, perché ha più voce in assoluto lui che qualsiasi altro, tutti leggono Internet! […] merita il Nobel per la Pace molto più del Presidente Usa”.


Wired e Negroponte hanno sostenuto
la candidatura di Internet per il Nobel
per la pace 2010
Inoltre non sono pochi coloro che continuano a sostenere che la Rete è rivoluzionaria, poiché libererebbe gli individui e li metterebbe in condizione di partecipare attivamente alla vita sociale. Clay Shirky, docente alla New York University e ascoltato editorialista del New York Times, sostiene che senza Internet non ci sarebbero state la Primavera araba, Occupy Wall Street e il movimento degli indignados. 


Una manifestazione di Occupy Wall Street
Credo sia indiscutibile il potere che si esprime attraverso Internet, perciò non starò qui a metterlo in discussione. Dietro la Rete c’è l’opinione di almeno metà della popolazione mondiale, se non di più. Il punto, però, è proprio questo: che tipo di potere è? È un potere controllabile? È assolutamente privo di limiti, e quindi ab solutus, al di sopra di ogni legge? E ancora: Chi può utilizzarlo? Per quali fini?
Non mi metterò a giocare con la dietrologia e con il complottismo, malattie sempre più diffuse (proprio grazie ad Internet) a causa delle quali si finisce per vedere dietro ogni affermazione che appare sui mass media la longa manus dei servizi segreti o dei “poteri forti”. Intendo invece gettare in faccia al “popolo di Internet” il pericolo che deriva dalla sua stessa esistenza.

Popolo o folla?
Guardaroba...
Il popolo di Internet, infatti, non è un vero popolo. Non c’è dietro di lui una tradizione, né una serie di valori consolidati, una quotidiana frequenza di relazioni con le medesime istituzioni, con la medesima lingua, con i medesimi simboli. Da questa condivisione sono nate, storicamente, le forme della politica attraverso cui i popoli si sono governati. Dalla rivoluzione francese in poi la politica è esistita laddove vi è stato un popolo, ovvero una comunità dotata di una identità abbastanza stabile da costituire uno Stato nazionale. Il popolo di Internet, al contrario, è piuttosto simile ad un gruppo di acquirenti di un supermercato che si trovano a condividere un’ esperienza temporanea e casuale: quella dell’acquisto di una data merce. Terminata l’esperienza, la condivisione viene meno e i vincoli temporanei creati con gli altri si dissolvono. L’identità di questo popolo non è definibile, poiché varia in continuazione e si frammenta in un moto vorticoso, rendendo impossibile la sua definizione. È quindi un “popolo” privo di identità, che non costituisce una vera comunità politica. È una forma di socialità che Bauman chiama “comunità di guardaroba”: una comunità simile a quella degli spettatori di un teatro che si radunano nel guardaroba per consegnare o per ritirare il cappotto. Le comunità di guardaroba, dice Bauman, sono “comunità fantasma, comunità illusorie, comunità ad hoc […] quel genere di comunità cui ci si sente uniti semplicemente stando là dove stanno gli altri, oppure ostentando distintivi o altri segni di intenzioni, stili o gusti comuni: comunità a tempo determinato (o almeno dichiaratamente temporanee) da cui ‘si esce’ non appena la folla si disperde, pur restando liberi di andarsene anche prima, in qualsiasi momento, se l’interesse iniziale si è affievolito”. Una comunità che non comporta responsabilità oggettive, (come accade invece per i popoli veri), poiché totalmente assoggettata a qualcosa di impalpabile e di mutevole: il “gusto” soggettivo (Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, [2007], tr. it. Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 139-140).
Gustave Le Bon (1842-1931)

Le comunità di Internet, specie quelle che si formano attorno ai social network, hanno qualcosa in comune con la folla descritta da Gustave Le Bon ne La Psicologia delle folle (1895): eterogenee, irrazionali, impulsive, acefale. Per governarle e sfruttarne il potere distruttivo, spiegò Le Bon, occorre un meneur de foules, un leader-manipolatore capace di suscitare sentimenti forti, emozioni, immagini irrazionali che, molto meglio delle argomentazioni logiche, possono trasformarsi in azione diretta. “Esagerare, affermare, ripetere e mai tentare di dimostrare alcunché con il ragionamento”: queste le doti di un vero capo di folle eterogenee (Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, [1895], tr. it. Milano, Mondadori, 1982, p. 54). Affermazione, ripetizione, contagio sono le leggi fondamentali dell’imitazione di comportamenti e sentimenti da parte dei membri di una folla anonima ed eterogenea. Questo dice Le Bon.

In effetti, se si leggono gli interventi dei commentatori dei blog dei grandi quotidiani nazionali o redatti dai personaggi più seguiti su Internet si notano: violenza verbale, ricorso all’insulto, uso frequente di luoghi comuni al posto dei dati di fatto, allergia nei confronti dei ragionamenti lucidi, incapacità ad ascoltare e a soppesare il parere altrui e, infine, completa sottomissione al Verbo di qualche sacerdote di turno. Le Bon avrebbe commentato così: “non sono i fatti in se stessi che colpiscono l’immaginazione popolare, ma il modo in cui si presentano. Questi fatti devono produrre, per condensazione […], un’immagine avvincente che riempia e ossessioni la mente. Conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare” (G. Le Bon, op. cit., p. 69). Le folle di Internet sono particolarmente volubili e occasionali, quindi molto manipolabili.


Ma ciò che dovrebbe preoccupare ancora di più è un ulteriore aspetto: l’irrealtà del cyberspazio. Sì, capisco che sto per dire una cosa che tutti reputano così banale da non meritare un secondo di attenzione: Internet è realtà virtuale, direte voi, chi non lo sa? C’è da preoccuparsi per questo? Bè, secondo me un po’ di timore questo aspetto dovrebbe suscitarlo. Chi vi dice che dietro le parole che state leggendo ci sia davvero io? E chi vi dice che io sia davvero chi dico di essere? Chi vi dice che tra i commentatori di un qualsiasi forum aperto in Rete non si nasconda un provocatore dietro un innocuo nickname? E i dati esibiti in Rete da chiunque (anche quelli utilizzati dal sottoscritto in precedenti post), chi lo dice che siano reali e non inventati di sana pianta per influenzare chi legge? Quale garanzia di credibilità può dare tutto l’immenso patrimonio di conoscenze disperso nella Rete? A parte i dati forniti da istituzioni reali che possono essere accusate di mentire se scoperte a falsificare qualche informazione, come posso sapere chi e perché ha messo in circolazione certi dati se dietro ogni identità si può celare qualcuno che non è ciò che dichiara di essere, o addirittura se ogni identità potrebbe non corrispondere ad una persona reale?

Marshall McLuhan (1911-1980)
Il problema della credibilità di Internet non è certamente nuovo. Se ne occupano da tempo gli studiosi di mass media, poiché questo è il problema fondamentale di qualsiasi mezzo di comunicazione di massa. È un interesse che risale almeno al 1967, quando Marshall McLuhan, il famoso sociologo canadese autore di importanti studi sui mass media, affermò che “il mezzo è il messaggio”, ovvero che è la forza di persuasione della struttura di un mezzo di comunicazione, non i contenuti che esso trasmette, ad avere influenza sui suoi utilizzatori. All’epoca del dominio della televisione si diceva: “l’ha detto la tv”, quindi è credibile. Oggi si dice: “l’ho visto su youtube”; oppure: “l’ho letto su facebook”. Quindi è credibile.


Insomma, il problema della credibilità dei mezzi di comunicazione non è nato con Internet. Di recente, tuttavia, la questione sta tornando al centro dell’attenzione di molti a causa dell’enorme successo dei social network e della loro pervasiva diffusione sociale. Sul Corriere della sera, ad esempio, se ne sono occupati Carlo Vulpio (La Rete è un trucco, in La Lettura, supplemento al Corriere della sera del 1° luglio 2012) e Massimo Sideri (Tutte le bugie di Facebook, in La Lettura, supplemento al Corriere della sera del 19 agosto 2012). Anche la recentissima polemica sui follower di Beppe Grillo su Twitter (follower che sarebbero in gran parte falsi secondo Marco Camisami Calzolari, esperto di comunicazione digitale e docente allo IULM: vedihttp://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/22/scontro-tra-grillo-e-camisani-per-twitter-professore-5-stelle-mi-minacciano/301593/ha risvegliato l’interesse sulla questione.

Vulpio, nell’articolo che ho ricordato, afferma che ciò che conta, per chi vuole diffondere un qualsiasi messaggio in Rete, è conoscere il tipping point, cioè il momento in cui quel messaggio comincia ad essere assorbito dai frequentatori di Internet; ciò che conta, in quel preciso momento, è poter dire: “zitti tutti, lo ha detto la Rete. La fonte di democrazia suprema”. “Poco importa”, prosegue Vulpio, “se poi quella Rete non esiste e quella che viene spacciata per iperdemocrazia dal basso è una democrazia rovesciata, cioè un’illusione di democrazia. […] Poco importa, infine, se l’intera realtà e quindi anche gli esseri umani sono considerati soltanto un unico, grande sistema informativo, una Rete di reti – questo il nuovo dogma – in cui ciò che rileva sono i numeri, la folla, anzi l’ideologia della folla, disancorata dalla realtà reale perché ormai completamente e fideisticamente immersa in quella virtuale”. Sembra fargli eco l’articolo di Sideri: “la patologia di Facebook”, conclude l’autore, “altro non è che la patologica propensione dell’essere umano alle piccole menzogne quotidiane, elevate all’ennesima potenza grazie ad Internet”. Insomma, il “villaggio globale” che McLuhan profetizzò negli anni Sessanta è oggi sotto i nostri occhi, negli spazi virtuali della Rete: in essi si muovono folle anonime e irritabili, facilmente condizionabili e volubili. Per avere la loro superficiale attenzione non c’è bisogno di essere un abile leader dotato di qualità carismatiche, come sosteneva Le Bon: basta fingersi chi non si è e diffondere in Rete un fake (letteralmente: un falso).

James Surowiecki
Secondo James Surowiecki (il giornalista del New Yorker divenuto famoso negli Usa per la teoria sulla “saggezza della folla”) la massa anonima di Internet sarebbe in grado di fornire adeguate risposte ad ogni problema, molto meglio di come farebbe un team di esperti (cfr. J. Surowiecki, La saggezza della folla, [2004], tr.it. Roma, Fusi Orari, 2007). La democrazia dal basso, insomma, sarebbe per Surowiecki superiore a qualsiasi competenza e a qualsiasi studio. Ciò che viene dalla folla avrebbe sempre qualità superiori, dovrebbe essere sempre recepita come Verità. A questa teoria ha risposto di recente Jaron Lanier, ingegnere informatico, un tempo guru della “Silicon Valley”, profeta negli anni Ottanta di una società migliore grazie ad Internet, inventore dell’espressione “realtà virtuale, progettista di Second Life. Lanier ha scritto nel 2010 il volume Tu non sei un gadget (tr. it. Milano, Mondadori, 2010) in cui analizza con lucidità, e persino con crudeltà, le illusioni degli anni Ottanta e Novanta diffuse dagli informatici sulla capacità di Internet di rendere il mondo libero e felice. Egli mette in guardia contro le aberrazioni cui ha condotto la telematica, compresa l’erronea convinzione “fondata sulla leggenda che il sapere collettivo sia inevitabilmente superiore alla conoscenza del singolo esperto e che la quantità di informazioni, superata una certa soglia, sia destinata a trasformarsi automaticamente in qualità”. Secondo Lanier, si starebbe sviluppando attraverso Internet una sorta di collettivismo digitale dai tratti totalitari che, seppure non possa prendere vita e diventare una creatura sovrumana (come crede Larry Page, fondatore di Google), certo ha però la capacità ipnotica di un leader in grado di subordinare a sé le volontà individuali. In particolare, afferma Lanier, tale pericolo è evidente con l’avvento del Web 2.0 (lo sviluppo della Rete basato sulla collaborazione sito-utente: Youtube, Wikipedia, ma soprattutto i social network).
Jaron Lanier

Forse dovremmo cominciare a chiederci se a causa di Internet non sia a rischio di estinzione l’uomo come specie pensante. Altro che calendario Maya! Quando il Moloch di Internet ci divorerà, qualcuno sarà felice di sprofondare nelle sue viscere, purché l’evento venga postato su Facebook. La sua personalità individuale verrebbe annullata, certo, ma, per dirla con le parole di Andy Warhol, avrebbe avuto il suo quarto d’ora di celebrità.






Il Moloch