giovedì 13 settembre 2012

Ideologia del terrore e islamismo politico: prima parte


1a parte: LA “PRIMAVERA ARABA”, L’ATTENTATO DI BENGASI E LE ILLUSIONI DELL’OCCIDENTE


L'ambasciatore statunitense Chris Stevens, ucciso
nell'attentato di Bengasi il 12 settembre

Stevens morente mentre alcuni funzionari
cercano di salvarlo

L’attentato terroristico di Bengasi del 12 settembre, in cui hanno perso la vita l’ambasciatore statunitense Chris Stevens e altri tre funzionari dell’ambasciata, è stato un brusco risveglio per l’Occidente. In Europa e a Washington ci si era illusi che le elezioni libiche di luglio, in cui hanno vinto i moderati mentre gli islamisti radicali sono stati sconfitti, avrebbero portato pace e democrazia in un paese sconvolto da mesi di guerra civile. Ma oggi, dopo l’attentato, appare più chiaro quanto molti osservatori andavano ripetendo da tempo: il governo di coalizione libico, guidato dal filoccidentale Mahmud Jibril, controlla a mala pena Tripoli, mentre il resto del territorio è nelle mani di bande più o meno politicizzate, più o meno legate alle fazioni estremiste dell’islamismo fondamentalista. Quanto accaduto in Libia, unito alle conseguenti manifestazioni de Il Cairo, sembra dirci che la “primavera araba”, espressione inventata dai mass media occidentali, è un mito che ha poco a che vedere con la realtà che si sta profilando nei paesi musulmani attraversati dalle proteste del 2010-2011.



Muhammar Gheddafi, il leader libico catturato e ucciso
dai ribelli nell'ottobre del 2011
Tali proteste erano iniziate nel dicembre 2010 in Tunisia e si erano poi diffuse, nel corso del 2011, in Egitto, Libia, Yemen (paesi nei quali i ribelli sono riusciti a deporre i capi di governo: rispettivamente Ben Alì, Mubarak, Gheddafi e Abdullah Saleh). Poi l’onda della protesta ha lambito la Giordania (dove la monarchia si è salvata, ma è stata costretta a promettere un piano di riforme) e l’Arabia Saudita (dove il re Abd Allah, per rimanere al suo posto, ha represso le manifestazioni e ha promesso qualche riforma); è giunta con forza in Bahrain e Gibuti, dove vi sono stati durissimi scontri tra forze dell’ordine e manifestanti; si è abbattuta con violenza in Algeria, dove i conflitti sono stati anche più sanguinosi; infine, più di recente, ha colpito la Siria, dove lo scontro tra ribelli e governo ha mietuto già migliaia di vittime e ogni giorno si fa più cruento. Nel frattempo anche Iraq, Kuwait, Libano, Marocco, Mauritania, Oman e Sudan sono stati scossi dalla rivolta. Sono ancora vive nella nostra memoria le scioccanti immagini della cattura e dell’uccisione del leader libico Gheddafi da parte dei ribelli; tuttora sono in corso scontri in molti dei paesi che ho nominato e in altri si stanno aprendo fronti di conflitto armato; dalla Siria, infine, giungono tutti i giorni terrificanti bollettini di guerra.
Sirte, 20 ottobre 2011: il corpo straziato di Gheddafi
Se questa è la situazione, perché l’espressione “primavera araba” sarebbe un mito, come prima l’ho definita? Perché questa espressione riflette più le speranze e le aspettative di noi occidentali che le reali richieste dei ribelli, e tanto meno riflette la direzione che gli eventi stanno prendendo nei maggiori paesi attraversati dalla protesta. In occidente, specie in Europa, si è voluto vedere in questa ribellione il segno dei tempi: i popoli arabi – questa è la lettura che hanno dato i mass media occidentali (soprattutto siti e blog di Internet) – vogliono la libertà, vogliono il diritto di voto, vogliono il diritto al lavoro, odiano le dittature dei leader al governo, corrotti e incapaci, vogliono, in una parola, la modernità. Prova principale dell’esistenza di queste aspettative, prova esibita spesso dai giornali e dalle televisioni, sarebbe il fatto che i ribelli hanno usato i social network per mobilitarsi, per organizzarsi, per tenere desta la fiamma della rivolta. Attraverso la Rete essi avrebbero appreso la modernità e ora, con coraggio, chiederebbero alle loro istituzioni cambiamenti radicali, e sarebbero pronti a voltare pagina se le riforme non arrivassero. Insomma, i popoli arabi sarebbero più coraggiosi dei popoli europei che continuano a sopportare governi corrotti e liberticidi che impongono loro tasse, tasse e ancora tasse…

È vero che tra le cause delle rivolte ci sono state la corruzione e il dispotismo dei governi contestati o rovesciati; è vero che i social network hanno giocato un ruolo importante nel comunicare e diffondere le parole d’ordine della ribellione; è vero infine che anche la disperazione deve essere annoverata tra le cause, soprattutto l’incremento del costo del grano che ha letteralmente affamato buona parte delle popolazioni magrebine e mediorientali. Ma riguardo agli esiti della “primavera araba” le conclusioni dei mass media occidentali sono state eccessivamente ottimiste.

Il neoeletto Presidente egiziano
Mohamed Morsi
Le cose, infatti, sono assai diverse dalle previsioni delle opinioni pubbliche europea e nordamericana. In nessuno dei governi nuovi che i ribelli hanno portato al potere vi è tuttora traccia di una svolta “moderna” in senso occidentale (ad esempio democrazia liberale, libero mercato, welfare, libertà d’opinione e di culto, pari diritti tra uomo e donna, libertà d’insegnamento); in alcuni, anzi, si sono manifestati segnali opposti, o perlomeno contrastanti con la modernità, poiché le forze che li sostengono sono pericolosamente vicine al fondamentalismo islamico. Nel più popoloso e influente paese attraversato dalle rivolte, l’Egitto, si sono tenute elezioni politiche (in un clima tutt’altro che liberale) che nel giugno di quest’anno hanno portato al potere Mohamed Morsi, leader dell’ala politica del più importante movimento islamista egiziano, i Fratelli musulmani. Ebbene a tutt’oggi, malgrado alcuni segnali di conciliazione, non si sa se Morsi abbia reali poteri o se sia nelle mani delle fazioni più estremiste del movimento, o di quelle dei generali della precedente giunta militare che governò provvisoriamente l’Egitto dopo la deposizione di Mubarak. Ma soprattutto non si sa quale politica questo governo voglia avviare, se di modernizzazione o di ritorno ad un intransigente tradizionalismo: paradossalmente, l’esercito e le tendenze dittatoriali dei suoi generali sembrano costituire un argine contro l’islamismo fondamentalista; i Fratelli musulmani, invece, contrari alla dittatura militare, sono più vicini al fondamentalismo (cfrAlessandro Accorsi, I Fratelli musulmani alla prova del governo, in Limes online, 6/7/2012).

L'ayatollah Ruhollah Khomeyni (1902-1989), guida
della rivoluzione iraniana del 1979
Non è la prima volta che nel mondo islamico si presentano simili paradossi: quando nel 1979 in Iran venne deposto il governo, laico ma dispotico e corrotto, dello Scià Reza Pahlavi, e andò al potere la rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni, nel mondo occidentale si salutò l’evento come l’inizio di un’era democratica e di rinnovamento. Come è andata a finire lo sappiamo tutti: applicazione della legge coranica, dominio degli imam sulle istituzioni, trionfo del fondamentalismo. Le riforme dello Scià, laiche e moderne, vennero tutte abolite. La rivoluzione islamica iraniana per l’Occidente fu uno shock che, unito all’incremento del prezzo del petrolio, suonò come una tromba di guerra contro le libertà moderne. Altro abbaglio venne dalla politica estera di Saddam Hussein, presidente dell’Iraq a partire sempre dal 1979: questi, laico e di religione islamica sunnita, pronunciò parole di fuoco contro i musulmani sciiti da poco al potere nel vicino Iran, sicché parve un baluardo contro il rischio del dilagare del fondamentalismo. Per questo, fidandosi di lui, Saddam Hussein venne sostenuto e armato dagli Stati Uniti, perché aiutasse l’Occidente ad arginare con le armi la diffusione del fanatismo khomeinista nel Medio Oriente. Come è andata a finire l’abbiamo visto tutti: Saddam si è rivoltato contro quell’Occidente che l’aveva armato durante la lunga guerra contro l’Iran (1979-1988) ed è diventato, lui che era laico, più pericoloso dei fanatici islamisti iraniani.
Saddam Hussein (1937-2006) presidente dell'Iraq
dal 1979 al 2003, quando venne deposto dall'invasione
anglo-americana (Seconda guerra del Golfo)

Allo stesso modo oggi, dopo aver creduto che tra le folle islamiche si sarebbe diffusa la democrazia occidentale per effetto delle loro rivolte, ci risvegliamo dal sonno e ci troviamo davanti alle immagini di piazze libiche ed egiziane (ma anche di altri luoghi, ad esempio nello Yemen, in Afganistan) dove ancora si bruciano le bandiere degli Stati Uniti, dove si urla fanaticamente che occorre punire i blasfemi che hanno osato nominare Maometto, dove si chiede a gran voce la guerra santa contro l’Occidente. Odio, violenza, fanatismo e intolleranza, altro che democrazia dei social network! 

Manifestanti antiamericani a Il Cairo mentre bruciano la bandiera degli Stati Uniti

Il pastore protestante Terry Jones, tra i promotori
del film L'innocenza dei musulmani
Che l’attentato di Bengasi sia stato provocato da una reazione contro il reverendo Terry Jones e contro il film L’innocenza dei musulmani (sul quale si veda Corriere della sera online: “L’innocenza dei musulmani”. Il film che infiamma Egitto e Libia, 12/9/2012), o che esso sia stato già da tempo preparato da Al Qaeda, poco importa: il comportamento delle piazze islamiche, la facilità con cui transitano in esse i messaggi dei fondamentalisti, la capacità di questi messaggi di mobilitarle dimostrano che non bastano le connessioni ad Internet per portare la democrazia dove non c’è mai stata la libertà. Le notizie peggiori, come ricorda Massimo Gaggi sul Corriere della sera di oggi, vengono proprio dall’Egitto, più ancora che da Bengasi: è in Egitto che l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, ha assunto dei rischi enormi abbandonando Mubarak e appoggiando i Fratelli musulmani e Morsi nella speranza che si arrivasse ad un’apertura democratica e moderna. Cosa è accaduto invece? Che Morsi non solo ha chiesto agli Usa di punire gli autori del film accusato di blasfemia, non solo non ha speso grandi parole per condannare l’attentato di Bengasi, ma tutt’oggi continua a parlare dell’11 settembre come di “un’oscura macchinazione” (cfr. Massimo Gaggi, “Li abbiamo liberati, ci hanno traditi”. L’America riflette sui nuovi alleati, in Corriere della sera, 13/9/2012).

Manifestanti antiamericani 
Siamo stati vittime di un altro abbaglio? La “primavera araba” veicolata da Internet ha portato democrazia nei paesi arabi o ha semplicemente rafforzato l’islamismo radicale e violento (come ipotizza Angelo Panebianco: Lo sguardo miope dell’Occidente: il giorno dopo l’11 settembre, in Corriere della sera, 13/9/2012)? E anche se le rivolte avessero prodotto democratizzazione nei paesi arabi, è auspicabile per l’Occidente che in questi paesi vi sia democrazia senza libertà? Non ci accorgiamo che una democratizzazione illiberale può essere peggiore di una dittatura militare (cfr. ibidem)? Diciamolo: noi occidentali capiamo poco del mondo mediorientale, della religione islamica e soprattutto della traduzione politica del messaggio religioso, il cosiddetto “islamismo”. Per evitare di essere preda di miti e di prendere ancora abbagli dovremmo capire bene cosa significano certe parole per gli islamisti radicali: cosa vuol dire per loro “religione”? Cosa vuol dire “politica”? E “Stato”? Esiste qualcosa di simile alla nostra parola “libertà” nelle loro lingue? Dedicherò i prossimi post a questi argomenti, cominciando proprio dai Fratelli musulmani e dalla loro ideologia. (1 – continua)

Il simbolo dei Fratelli musulmani