venerdì 30 novembre 2012

Le ultime novità: seconda parte. L'occupazione delle scuole


Le novità di questi giorni: seconda parte.
Le proteste studentesche



2. Le proteste studentesche. Iniziate qualche settimana fa, anche quest’anno sono arrivate le solite autunnali proteste studentesche. Non mi soffermerò sul “vuoto conformismo” che spesso queste stereotipate manifestazioni rappresentano: aspetto sul quale Giovanni Belardelli ha scritto di recente un articolo, pubblicato dal Corriere della sera, che condivido del tutto (G. Belardelli, Il rito conformista delle occupazioni, Corriere della sera, 19 novembre 2012, p. 28).

Voglio soffermarmi, invece, sul merito di queste proteste: la protesta nei confronti della legge di stabilità, e la dura opposizione nei confronti del disegno di legge 953, noto come “ex-Aprea”. Si tratta di due questioni differenti e, secondo me, senza alcuna relazione tra loro. L’opposizione nei confronti della legge di stabilità riguarda i sacrifici che il governo intende imporre alla scuola: tagli e risparmi per circa 180 milioni di euro. Il fermento tra gli insegnanti era iniziato proprio per questo, perché, come si ricorderà, nella sua prima stesura la legge di stabilità prevedeva l’aumento di ben 6 ore settimanali di lavoro per tutti i docenti delle scuole medie e delle superiori, portando così l’orario settimanale di lezione da 18 ore a 24. Aumento d’orario di ben un terzo senza aumento di stipendio: naturale che la protesta si sia diffusa in un lampo e abbia prodotto una serie di petizioni on line giunte sul tavolo del Ministro Profumo. Il seguito della vicenda lo conoscete tutti: scosso dalla protesta, il governo ha fatto marcia indietro, stralciando dal progetto l’aumento delle ore di lavoro.


Sono rimasti, però, i tagli. Da dove prendere i 180 milioni? Molto probabilmente la decurtazione colpirà il Fondo dell’istituzione scolastica, ovvero quei trasferimenti con i quali il Ministero finanzia le cosiddette “attività aggiuntive”. Subito è scattata un’altra forma di protesta: la sospensione delle attività pomeridiane, come sportelli e corsi di recupero, progetti, certificazioni ecc. È stata giusta e ben orientata questa mobilitazione? Risponderò in poche parole. Giusta la mobilitazione contro l’aumento dell’orario, perché si tratta di materia contrattuale e perché il lavoro dell’insegnante non si esaurisce nelle 18 ore di lezione in classe, ma arriva vicino alle 40 settimanali. Opinabile la protesta contro i risparmi: non perché siano da approvare le decurtazioni delle risorse a disposizione della scuola, ma perché temo che, se vogliamo il pareggio di bilancio anche per il 2013, non siano attualmente disponibili altre soluzioni. Certo, è bene far sentire la protesta della scuola al governo, perché capisca che il mondo dell’istruzione sta soffrendo da molti anni per la penuria di risorse; inoltre è necessario ricordare continuamente alle autorità che la riduzione dei costi della politica è da preferire ai tagli alla spesa pubblica. Ma l’urgenza dell’adeguamento dei conti al fiscal compact europeo del marzo scorso sembra imporci ulteriori sacrifici, poiché i rischi per la nostra nazione permangono e appaiano ancora molto gravi. Che fare, allora? Continuare a scioperare finché tutti non saremo precipitati nel default? O stringere ancora una volta la cintura?  Inseguire un obiettivo ideale, giusto, ma di difficile realizzazione in tempi brevi, oppure affrontare subito l’emergenza con provvedimenti ingiusti ma necessari? Credo che, purtroppo, non ci siano alternative al sacrificio, almeno non in tempi brevi.


Completamente diverso è il discorso relativo alla protesta contro il ddl ex Aprea. Innanzitutto, quando è cominciata la mobilitazione degli insegnanti per le ragioni di cui sopra, l’obiettivo della contestazione del disegno di legge non era stato ancora messo ben a fuoco: ne sapevano poco gli insegnanti, non ne sapevano nulla gli studenti. È evidente che qualche ben informata fonte di mobilitazione politica ha saputo sfruttare ad arte la situazione di scontento per infilare tra gli obiettivi della protesta l’opposizione al ddl. La metodologia è la stessa di sempre: urlare con supponenza slogan brutali e ideologici, gridare che la scuola pubblica è sotto attacco e, con essa, la democrazia e la libertà; attendere che le urla facciano effetto e cavalcare poi la mobilitazione ponendosi alla testa  di manifestazioni, assemblee, occupazioni. Sicché è accaduto che una protesta nata per sacrosanti motivi sindacali abbia assunto, nel volgere di poche settimane, l’aspetto di una crociata a  difesa della scuola statale, contro l’attacco dei capitalisti pescecane che stanno per azzannarla.
Naturalmente in una situazione di agitazione tutto serve a chi vuole seminare rabbia e confusione: non ultima la disinformazione, come ha fatto il sito di notizie scolastiche orizzontescuola.it  che continua, tuttora (vedi: http://www.orizzontescuola.it/node/22958), a pubblicare la vecchia versione del ddl, quella precedente alle modificazioni imposte dal passaggio alla Camera dei Deputati il 10 ottobre scorso, traendo in inganno studenti, insegnanti e genitori.
Valentina Aprea

Ma cosa dice il ddl ex Aprea? Elaborato tempo fa da Valentina Aprea, già sottosegretario all’Istruzione nei governi Berlusconi, è stato modificato profondamente dalla Commissione cultura della Camera, prima di arrivare al voto del 10 ottobre. Su di esso si è registrata un’ampia convergenza, poiché Pd  e PdL hanno votato a favore. Il ddl così varato intendeva realizzare quell’autonomia scolastica prevista dalla legge n. 59 del 1997 (nota come legge Bassanini), dal DPR 275 del 1999 e dalla riforma del titolo V della Costituzione (art. 117). Queste norme avevano già previsto esplicitamente che obiettivo dell’autonomia sarebbe stata la “diversificazione” del servizio scolastico e il “coordinamento con il contesto territoriale” (art. 21, comma 8 della legge Bassanini; art. 1 comma 2 del DPR 275/99). In particolare il DPR del ’99 affermava che la formazione deve essere “adeguata ai diversi contesti” (quindi differenziata) e alla “domanda della famiglia” (la quale, quindi, deve essere in qualche modo coinvolta nell’elaborazione del Piano dell’Offerta Formativa predisposto dalla scuola). Anzi, l’art. 3, comma 3 del DPR afferma esplicitamente che “Il Piano dell'offerta formativa è elaborato dal collegio dei docenti […] tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto dei genitori e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti.” L’articolo 8 è anche più esplicito, poiché indica la possibilità di definire il curricolo in modo “flessibile”, integrando la quota “nazionale” con quella “riservata” alle singole scuole (comma 2), offrendo “agli studenti e alle famiglie […] possibilità di opzione” (comma 4). Diversificazione, ruolo delle famiglie, collegamento organico con il contesto territoriale socio-economico-culturale erano insomma già stabiliti dalle leggi degli ultimi 15 anni. La riforma del Titolo V della Costituzione, nell’articolo 117, ha aggiunto il principio di sussidiarietà nei fondamenti giuridici della Repubblica, affermando la “potestà legislativa” degli Enti autonomi.

Il ddl Aprea ha aggiunto poco di più a questo corpus di norme: ha affermato che ogni scuola, essendo autonoma, deve avere un proprio Statuto (come accade per ogni Ente autonomo: i Comuni hanno uno Statuto, le Regioni hanno uno statuto, le Province hanno uno statuto, le Poste hanno uno statuto…); che le famiglie hanno libertà di scelta riguardo all’istruzione e formazione dei loro figli (ma è davvero una novità? Lo dicevano già a chiare lettere le leggi precedenti); che gli organi collegiali devono essere in grado di recepire i cambiamenti introdotti dall’autonomia, aggiungendo al consiglio dell’autonomia (che dovrebbe sostituire il consiglio d’istituto) “ulteriori membri esterni” in numero non superiore a due, senza diritto di voto (art. 4, comma 1, punto e). Questi membri possono far parte del consiglio solo se vi è il parere favorevole “di almeno 2/3 dei componenti del consiglio stesso”, e possono essere scelti tra i soggetti indicati dall’art. 1 comma 2: rappresentanti dello Stato, delle Regioni, delle autonomie locali, delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi. È così scandaloso tutto ciò?

Può darsi che lo sia. Tutto quel che hanno affermato in questi ultimi 15 anni le leggi che ho citato è materia opinabile (fermo restando, però, che la Costituzione ha introdotto la sussidiarietà: non si può invocare la Costituzione solo quando fa comodo!). Tutto è opinabile in fatto di organizzazione scolastica. Ma se si contesta il ddl ex Aprea occorre rigettare tutte le norme istitutive dell’autonomia: come realizzare il coinvolgimento dei soggetti sociali, politici, culturali ed economici del territorio previsto da quelle norme se non dando ad essi un minimo di spazio nelle istituzioni scolastiche? E come dare voce alle esigenze formative delle famiglie se non facendole partecipare all’elaborazione del POF? Come, infine, attribuire “potestà legislativa” ad una scuola autonoma senza dargli il potere statutario di decidere come organizzare la propria esistenza, dall’attività curricolare a quella “progettuale”, dalle assemblee studentesche alle visite d’istruzione? Anche se si volesse rigettare del tutto il ddl in questione, resterebbe comunque da risolvere il problema di come dare realizzazione alle norme del ’97 e del ’99 che hanno istituito l’autonomia scolastica.  
La sen. Mariangela Bastico

Ho l’impressione che in Italia le informazioni sulle leggi non vengano divulgate nello stesso modo: nessuno si scandalizza delle norme sull’autonomia; grande crociata, invece, sulle scandalose norme del ddl ex Aprea. Perché? Una risposta possibile la trovo nelle parole della senatrice del Pd Mariangela Bastico, ex vice ministro dell’Istruzione nel secondo governo Prodi. Nel suo sito afferma: “Dai numerosi incontri che abbiamo fatto come parlamentari e componenti del Pd, dalle audizioni avviate al Senato e soprattutto dalle grandi manifestazioni degli studenti e degli insegnanti abbiamo ben compreso l’altissima contrarietà e l’allarme nei confronti di un testo, che, pur profondamente cambiato, viene percepito come “legge-Aprea” e comunque tale da determinare per le scuole rischi di frammentazione, arbitrio, marginalizzazione” (DDLsulla governance delle scuole: il Pd non intende procedere nell’iter al Senato”). Quindi la crociata non c’entra nulla con il merito della legge, bensì con il nome che porta? La legge sarebbe quindi, a causa del suo nome, un simbolo per ricordare a tutti che la sinistra è pur sempre una forza che “si oppone”, anche se in questo momento non può farlo perché deve appoggiare Monti? Opporsi ad un disegno di legge che è nato nell’epoca dell’odiato Berlusconi equivarrebbe a  “dire qualcosa di sinistra”? L’opposizione al ddl Aprea servirebbe insomma per motivi di cassa elettoralistici? 

 

Da ingenuo quale sono continuo a sperare di no, continuo a sperare che questa non sia la risposta giusta alla domanda che ho posto. Perché allora opporsi al ddl Aprea ma non all’autonomia scolastica? C’è un’altra risposta? Forse ce ne sarebbe un’altra: l’autonomia scolastica in Italia tutti la invocano, ma nessuno la vuole veramente. Affermata con parole inequivocabili nelle leggi degli anni Novanta, è stata affossata per via “amministrativa”, riducendola a ben poca cosa. Cosa è rimasto, infatti, del “coordinamento con il contesto territoriale”, del “curricolo flessibile”, dell’ascolto delle domande formative delle famiglie e, soprattutto, della “diversificazione delle scuole”? È rimasto il peggio: il coordinamento con il territorio e la  flessibilità del curricolo sono stati declinati nel senso di offrire agli studenti occasioni di svago, percorsi formativi “alla moda”, settimane bianche, assemblee con “laboratori ludici”; la diversificazione non è stata ricercata nella qualità dello studio (dove sarebbe invece auspicabile che venisse messa in luce) bensì nella quantità delle “offerte” suddette rivolte agli studenti: ad esempio, siccome tutte o quasi tutte le scuole fanno la settimana bianca, è più gettonata la scuola che riesce ad organizzarla nel luogo più “cool”, al prezzo più competitivo, per più studenti possibili, per un maggior numero di giorni; siccome tutte le scuole organizzano il viaggio di istruzione di fine ciclo (che gli studenti chiamano, meno ipocritamente, “gita delle quinte”), conquista più fama quella scuola che riesce ad organizzarla nel luogo più esotico, al prezzo più competitivo: perché non fare una crociera? Perché non un safari in Kenia? Perché non un tour nei resort della Thailandia? Questa è l’autonomia scolastica in Italia, contro la quale non ho mai visto alcuna mobilitazione studentesca, né di insegnanti, né tanto meno di sindacati della scuola.


 

Due sono secondo me i mali attuali della scuola italiana: lo strapotere dei Dirigenti scolastici (figura creata dalla legge Bassanini, non dal ddl ex Aprea); la strisciante affermazione della cultura consumistica o, come scrisse tempo fa Paolo Mazzocchini, la cultura del “customer satisfaction” (= soddisfazione del cliente). Anche questa creata dalle leggi sull’autonomia, non dal ddl ex Aprea. Nessuno si è accorto che le due questioni sono strettamente connesse: i Dirigenti scolastici spingono (e quasi sempre ottengono) perché si adottino scelte didattiche gradite e piacevoli per gli studenti; la pubblicizzazione di queste scelte porta più iscritti alla scuola; il Dirigente guadagna di più e ottiene ancora più potere. A rimetterci è la cultura tradizionale che nessuno ama più: non l’amano i Dirigenti, perché temono che possa allontanare iscritti potenziali; non l’amano le famiglie che vorrebbero una scuola baby sitter, non una scuola che faccia sudare sui libri; non l’amano gli studenti che avvertono istintivamente quanto essa sia faticosa rispetto alle più accattivanti mode tecnologiche che il mondo propone loro. Uno degli “esecrabili scandali” del ddl ex Aprea è l’ingresso (possibile) di due soggetti privati, provenienti dal territorio, che potrebbero sedere nel consiglio dell’autonomia senza diritto di voto, come dicevo prima. Anche per questa proposta gli studenti sono scesi in piazza e hanno occupato le scuole. Nessuno, proprio nessuno, invece, in questi 15 anni di autonomia scolastica, ha mai protestato, manifestato, occupato scuole perché si avessero più ore a disposizione per studiare storia o matematica, e meno conferenze, meno cineforum, meno “gite” in orario scolastico. L’autonomia piace agli studenti se porta al disimpegno e piace ai Dirigenti se porta nuove iscrizioni. Non piace se si pretende di realizzarla fino in fondo, coinvolgendo nella formazione dei giovani territorio e famiglie. Forse è arrivato davvero il momento di mettere in discussione l’autonomia scolastica (sulla quale tornerò ancora).


 

Nel frattempo prendo nota del fatto che la piazza ha forse avuto successo: il Pd, come scrive la sen. Bastico, ha tolto l’appoggio al ddl ex Aprea; il Ministro Profumo ha affermato, nella lettera del 22 novembre  diffusa in tutte le scuole, che riguardo al ddl Aprea “non c’è alcuna responsabilità del Governo, né mia personale” e, aggiunge, “in alcun modo ho partecipato alla stesura del testo o ne ho mai condiviso l’impianto” (vedi qui la lettera completa): insomma, ha preso le distanze dal ddl, abbandonandolo a se stesso.  Perciò, è molto probabile che il ddl non approdi al Senato, cosicché gli studenti potranno cantare vittoria. Se poi si continueranno ad organizzare “assemblee ludiche” e a studiare poco, questo non importerà a nessuno. 




lunedì 26 novembre 2012

Primarie del centro-sinistra e proteste studentesche.


Le novità di questi giorni: le primarie del centro-sinistra.
Le proteste studentesche


Mentre il lavoro mi teneva inchiodato alla scrivania e lontano dal mio blog per diversi giorni, sono accadute in Italia due cose meritevoli di attenzione: le primarie del centro-sinistra; le manifestazioni studentesche (e in genere della scuola) contro la legge di stabilità e, soprattutto, contro il ddl 953, meglio noto come “ex-Aprea”. Alle due questioni dedicherò questo post e, tra qualche giorno, il prossimo.


1. Le primarie del centro-sinistra. L’esperienza delle primarie “all’americana” si sta radicando nel nostro paese, e questo è un bene. La selezione dei candidati (alla carica di Primo ministro o a quella di sindaco di una città) all’interno di uno schieramento politico giova alla chiarezza ed evita il frazionamento eccessivo delle forze in competizione. Ma queste primarie hanno rivelato qualcosa di più. Hanno rivelato una profonda differenza tra il centro-sinistra e il centro-destra. Il PD e in genere il centro-sinistra, dall’Idv a Sel, hanno saputo creare nel tempo una classe dirigente, una leadership attorno alla quale si coagulano interessi, posizioni politiche, scelte ideali. Dopo la fine della Prima Repubblica e la crisi del sistema dei partiti che l’ha accompagnata, questa è la notizia più positiva: c’è una classe politica che sta risorgendo attorno alla leadership del centro-sinistra, un ceto politico, in parte nuovo in parte meno, che sta ricostruendo la propria credibilità, passo dopo passo.

Il centro-destra, invece, versa in una crisi di leadership, come dimostrano gli eventi di questi ultimi giorni: le polemiche interne sull’opportunità di effettuare le primarie (Alfano le vuole, Berlusconi ha più volte opposto il veto), l’eccessivo numero di candidature (se non sbaglio lunedì scorso si era giunti a undici candidati: vedi sky.it), le accuse reciproche tra i candidati di essere più o meno fedeli al capo, di essere più o meno presentabili… Il centro-destra in quasi 20 anni di vita non ha saputo creare una classe dirigente capace di continuare l’attività politica dopo il ritiro o la delegittimazione del suo fondatore, Silvio Berlusconi. L’unica classe politica con un certo seguito e una certa autonomia dal Cavaliere è quella che proviene da An che, infatti, sta cercando in questi giorni di prendere in mano la guida del Popolo delle libertà. Per il resto attorno a Berlusconi c’è solo il deserto: non un solo uomo o una sola donna del PdL hanno forza a sufficienza per affermarsi nel partito, poiché tutti sono stati più o meno imposti dal Capo, nessuno può vantare una propria autonoma legittimazione politica. La vicenda delle primarie del PdL sta rivelando a tutti gli italiani ciò che molti sapevano già da tempo: che il partito di Berlusconi è un “partito di plastica”, un partito finto, in toto dipendente da un solo uomo, senza una vera base e, quindi, senza una vera classe dirigente interna.

Anche alla luce di ciò, è tanto più encomiabile ciò che il PD è riuscito a fare: il processo di selezione del candidato attraverso le primarie che il partito ha avviato dimostra non solo, come dicevo, che esso è dotato di una ceto dirigente, ma anche che sa mettere in moto i meccanismi per il rinnovamento dei vertici. Tuttavia, secondo il sottoscritto, solo Matteo Renzi rappresenta appieno questo rinnovamento: Renzi è giovane, meno connotato ideologicamente rispetto a Bersani e a Vendola, pronto a ragionare sui problemi attuali senza preclusioni ideologiche e, soprattutto, non cerca nelle ideologie del passato la propria legittimazione politica. In questo senso un confronto tra il programma di Renzi e quello di Vendola dovrebbe chiarire le idee anche al più scettico.

Detto questo, mentre esprimo il mio favore nei confronti del sindaco di Firenze, devo manifestare subito un timore: se Renzi non vincerà il ballottaggio del prossimo 2 dicembre (e ciò è probabile, dati i risultati che in queste ore vengono resi noti), che ne sarà del suo pur coraggioso tentativo di rinnovare il centro-sinistra e la politica italiana? Se Renzi sarà sconfitto gli resteranno solo due possibilità: o rimanere nel partito piegando la testa, o uscire dal partito fondando l’ennesimo “cespuglio sotto la Quercia” per occupare un piccolo spazio nell’affollato centro-sinistra nazionale. Francamente non saprei quale delle due scelte consigliargli, ma certo è che il suo tentativo di rinnovamento rischia di naufragare in entrambi i casi.

Se invece dovesse  vincere, esito poco probabile ma non impossibile, credo che non sia così difficile prefigurare la vittoria del centro-sinistra alle elezioni politiche della prossima primavera: Renzi sarebbe la persona giusta per rassicurare il ceto medio e i delusi del centro-destra, ma allo stesso tempo garantirebbe l’impegno per una seria politica riformista. Inoltre potrebbe convincere anche coloro che a tutt’oggi hanno creduto e stanno ascoltando la sirena populista di Grillo, poiché Renzi appare fuori dai giochi della casta, insomma potrebbe venir percepito come un politico pulito e per bene anche da quanti vorrebbero distruggere ogni ceto politico. Per il centro-destra Renzi  sarebbe un avversario temibilissimo. Di questo si è accorto lo stesso Berlusconi che, proprio oggi, ha affermato: “con Renzi potrebbe nascere la forza socialdemocratica” (vedi notizia di qualche ora fa sul portale ADNKronos). 

Un complimento? Sì, certo, se ad esprimersi così fosse stato un altro personaggio della nostra politica (che so, Di Pietro o Casini), non se queste parole provengono dall’uomo più odiato dal “popolo di sinistra”. Cosa penseranno gli elettori di Vendola e della Puppato sentendo che Berlusconi tifa Renzi? Penseranno che al ballottaggio è meglio votare per Bersani. Credo che questo ragionamento l’abbia fatto anche il Cavaliere il quale, sapendo quale pericoloso avversario sarebbe Renzi alle elezioni politiche, con la sua uscita odierna ha praticamente consegnato a Bersani la leadership del centro-sinistra. In queste ore persino i vendoliani si staranno complimentando con Berlusconi. (1-continua)