sabato 29 dicembre 2012

In piazza contro Assad?


Chi scende in piazza per i Siriani?

Assad come “Che” Guevara?



Qualche anno fa, leggendo il volumetto di Alvaro Vargas Llosa, Il mito Che Guevara e il futuro della libertà (tr. it. Torino, Lindau, 2007) mi sono chiesto perché in Europa la cultura di sinistra rimanga sempre profondamente affascinata dalle personalità dei tiranni sanguinari, come furono appunto Ernesto “Che” Guevara, oppure, molto prima, Lenin o Stalin, o ancora, più o meno contemporaneamente all’eroe sudamericano, Mao Tse-tung o Pol Pot. L’autore del libretto (figlio del noto scrittore peruviano Mario Vargas Llosa) afferma che la tirannia ha numerosi volti, alcuni di destra, alcuni di sinistra; che talvolta le innumerevoli forme assunte dall’oppressione si rivestono di richiami alla giustizia sociale, mentre talaltra di richiami alla sicurezza; che sempre tali richiami servono per abbellire l’ideologia o il regime e ingannare così gli individui, convincendoli a sostenerli. Ma in ogni caso, secondo Alvaro Vargas Llosa, chi sostiene queste tirannie si sottomette ad una “servitù volontaria”, conseguenza di una debolezza della mente tipica di quegli uomini che tendono a seguire il messaggio più accattivante e che più li lusinga: ogni tiranno, conclude l’autore citando il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de la Boetie (1530-1563), è tale perché il potere gli viene concesso da moltitudini che credono in lui e che lo venerano come una semi-divinità. “Riconoscere e denunciare il subdolo meccanismo psicologico per mezzo del quale i nemici della libertà cercano di indurci ad accettare una servitù volontaria è uno dei compiti più urgenti del nostro tempo. Saper distinguere la verità dalle più o meno raffinate imposture che proclamano la liberazione dell’umanità dal dispotismo, dall’ingiustizia o dalla fame è il primo passo verso una società libera. La liberazione dell’individuo è in primo luogo una liberazione della mente” (A. Vargas Llosa, op. cit., pp. 7-8).
Alvaro Vargas Llosa

Il caso di “Che” Guevara è emblematico. Era un sanguinario, violento e tirannico, un uomo che provava piacere a distruggere le vite di coloro che giudicava di intralcio per il raggiungimento dei suoi scopi, incapace di usare il potere per costruire sviluppo, pace e libertà. Un uomo che, come tanti “caudillos” latino-americani, ha lasciato dietro di sé corpi trucidati, lunghe scie di sangue, dozzine di cadaveri: un colpo di pistola alla tempia era per lui il modo più giusto per dirimere le questioni politiche e convincere gli esitanti. “Che” Guevara assassinò personalmente o supervisionò l’esecuzione, dopo un processo sommario, di decine e decine di persone, alcuni erano nemici della rivoluzione cubana, altri semplici sospetti, altri ancora sventurati che si erano trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato (cfr. ivi, p. 19). Quando fu posto da Castro alla direzione della prigione di La Cabaña, nella prima metà del 1959, ebbe modo di manifestare appieno quanto fosse spietato, diventando una vera e propria “macchina assassina a sangue freddo”: in quella prigione in sei mesi vennero giustiziati dai 200 ai 700 oppositori; la condanna era in genere eseguita di notte, da lunedì a venerdì, subito dopo un veloce processo la cui sentenza veniva immediatamente confermata dalla corte d’appello. Alcune fonti affermano che i trucidati siano stati molti di più, forse addirittura duemila. Nello stesso anno il “Che” prese parte alla costituzione del G-2, una polizia politica modellata sulla Čeka sovietica, di cui divenne capo Ramiro Valdes, fedelissimo di Guevara; poi assunse la direzione del G-6, l’organo incaricato dell’indottrinamento ideologico delle forze armate. I due organismi, praticamente entrambi controllati dal “Che”, furono i pilastri dello Stato di polizia eretto dal comunismo cubano. 

La fortezza di La Cabana: divenne una orrenda prigione cubana
diretta nel 1959 dal "Che"
La fallita invasione della Baia dei Porci, realizzata con il sostegno degli Stati Uniti nell’aprile del 1961, fu l’occasione per verificare l’efficienza del sistema di repressione creato da Guevara e da Castro: decine di migliaia di cubani furono rastrellati e fu ordinata una nuova serie di esecuzioni capitali (cfr. ivi, pp. 24-25). Il “Che”, infine, fu il più solerte organizzatore-edificatore dei campi di concentramento cubani, come quello di Guanahacabibes, attivo già alla fine del 1960. Dal 1965 in poi, tutta la provincia di Camaguey è diventata meta di confino e lavori forzati per dissidenti, omosessuali, vittime dell’AIDS, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri indesiderabili. Così Vargas Llosa descrive la terribile odissea dei confinati: “Stipati su autobus e autocarri, questi ‘rifiuti’ venivano trasportati sotto la minaccia delle armi in campi di concentramento sul modello di Guanahacabibes. Alcuni non avrebbero mai più fatto ritorno, altri sarebbero stati seviziati, picchiati o mutilati. Quasi tutti sarebbero rimasti traumatizzati per il resto della loro vita, come nel 1984 ha mostrato a tutto il mondo lo straziante documentario Cattiva condotta” (ivi, pp. 26-27).
Ernesto "Che" Guevara (1928-1967) in una delle sue
sprezzanti "pose"

Potrei continuare ancora a citare l’interessante volume di Vargas Llosa, ad esempio ricordando quanto il “Che” fosse attratto dalle proprietà altrui e fino a che punto si spinse per giustificare la sua visione di rivoluzione come furto puro e semplice, ruberia, ladrocinio. Il “Che” fu un uomo la cui attività politica è stata ispirata al puro esercizio del potere e mossa da un brutale istinto predatorio (ivi, pp. 24-25). Eppure non c’è figura di rivoluzionario che in Occidente goda di più fortuna di quella del “Che”. La sua immagine è diventata addirittura un’icona del consumismo di massa: stampata su magliette, felpe, bandane, tazze da tè essa è per moltissimi giovani occidentali (europei in primo luogo, soprattutto italiani) il simbolo della lotta contro la sopraffazione, il simbolo della ribellione contro l’autoritarismo in nome della libertà dei popoli oppressi della Terra. E, naturalmente, personaggi e divi dello star system non mancano di farsi fotografare con indosso la sua immagine, sapendo quanta popolarità conquisteranno tra i giovanissimi: dal musicista Carlos Santana agli attori Robert Redford, Antonio Banderas, Benicio del Toro; dai calciatori Diego Armando Maradona e Thierry Henry a giornalisti come Gianni Minà. Sono moltissimi i volti noti della musica, del cinema e della tv che, citando il “Che”, interpretandone la vita o indossandone la maglietta, hanno contribuito a trasformare un terrificante tiranno in un eroe romantico, un despota sanguinario in un mito “buonista”.

                      Maradona esibisce il tatuaggio che ritrae il "Che"                                  
Carlos Santana esibisce la T-shirt
con il "Che"
Si è mai visto qualcuno, in Occidente, scendere in piazza per denunciare i crimini di “Che” Guevara negli anni Sessanta e Settanta? Analogamente, si è mai visto qualcuno in quegli anni scendere in piazza per denunciare i crimini della rivoluzione cinese e di quella “culturale” in particolare? E, ancora, si è mai visto qualcuno, negli anni Ottanta, scendere in piazza per denunciare l’occupazione dell’Afghanistan da parte delle truppe sovietiche (occupazione che durò dal 1979 al 1988: il tempo per manifestare ci sarebbe stato…)? No, non si è mai visto nessuno. Eppure manifestazioni contro il militarismo statunitense all’epoca della guerra in Vietnam ve ne furono. E ugualmente vi sono state manifestazioni contro la Nato e contro i suoi interventi degli ultimi vent’anni, in Bosnia (1994-’95), in Afghanistan (2003), in Iraq (2004), in Libia (2011). La Nato è stata forse l’obiettivo più contestato nelle manifestazioni del Vecchio continente dell’ultimo ventennio. In genere si è trattato di manifestazioni organizzate da partiti o movimenti di sinistra, guidate da leader di sinistra più o meno radicali ma sempre accomunati dagli stessi messaggi: “pace senza se e senza ma”, libertà dai dispotismi, lotta contro l’imperialismo nordamericano.

Il dittatore siriano Bashar al-Assad

Bene. Allora come mai oggi nessuno di questi partiti, nessuno di questi leader organizza una manifestazione, uno sciopero, o semplicemente pronuncia ferme parole di condanna contro il sanguinario dittatore siriano Bashar al-Assad? Come ha illustrato il Rapporto di Amnesty International, da due anni, da quando è iniziata la cosiddetta “primavera araba”, il regime di Damasco ha usato, per reprimere le sollevazioni, carri armati e aviazione in zone abitate dai civili, ha arrestato e torturato migliaia di manifestanti, ha compiuto esecuzioni capitali senza neppure passare attraverso un processo e, di recente, si sospetta che abbia utilizzato armi chimiche contro i manifestanti. In due anni gli ordini di Assad hanno sterminato oltre 45.000 civili, compresi vecchi, donne e bambini. Certo, come ha spiegato alcune settimane fa Franco Venturini (cfr. il suo articolo, Massacri in Siria e (colpevole) indifferenza, Corriere della sera, 12.10.2012), la guerra civile siriana non è amata da nessuno e nelle segrete stanze della diplomazia tutti ne temono l’esito: la Russia, che per lungo tempo ha sostenuto Assad, teme che la vittoria dei ribelli possa significare un’espansione dello jihadismo nel Caucaso; gli Stati Uniti, che sono contro il regime siriano, temono anch’essi la vittoria dei qaedisti e temono che un intervento militare di Washington possa destabilizzare il Medio Oriente, come è già accaduto in passato (ad esempio in Libano); la Cina, che ha tutto l’interesse a far logorare i suoi avversari occidentali, sta alla finestra a guardare come evolvono gli eventi; la Turchia, che teme l’insurrezione del Kurdistan, non desidera di sicuro un’escalation della guerra civile né interventi esterni; l’Europa, infine, che si sforza di unificare le varie anime dei ribelli, non ha identità di vedute sulle questioni di politica estera, perciò non è in grado di programmare alcun intervento. Questi veti e timori sovrapposti sembrano essere una condanna a morte per altre migliaia di civili siriani, perché finché nessuno si deciderà ad intervenire altre persone moriranno, sterminate dall’esercito di Assad o seviziate dalla sua polizia.

Le date (fino a metà 2012) degli episodi più noti
della mattanza in corso in Siria
Ma il punto del mio intervento di oggi non è la denuncia dell’impotenza o della complicità della politica degli Stati; non è svelare quali interessi vi siano dietro le scelte compiute da ciascuno di essi, ma denunciare lo strabismo, anch’esso complice, di quelle forze politiche che sarebbero in grado di spingere e di condizionare le scelte dei propri governi ma che, pur vedendo quello che sta succedendo in Siria, non solo non si muovono, ma non si pronunciano neppure. Non si possono invocare, come scuse della loro inazione, l’ignoranza o la carenza di informazione: queste potevano forse valere per i crimini di Stalin, per quelli di Mao e per quelli del “Che” Guevara, delitti in parte ignoti, in parte ignorati nel momento in cui si stavano verificando. Oggi queste scuse, già pietose allora, non valgono più: sappiamo tutto quel che c’è da sapere a proposito degli eventi siriani, e sappiamo quali rischi sta correndo chi è sopravvissuto ai trascorsi massacri. Ripeto la domanda: allora perché in Occidente, in Europa, in Italia nessun partito o movimento di sinistra propone una serie di iniziative e di manifestazioni per fare pressioni sui propri governi, per rendere l’opinione pubblica consapevole di quanto sta accadendo?


Una risposta possibile ce la fornisce proprio “Che” Guevara. Vargas Llosa, nel volumetto che ho citato, ricorda che quando il “Che” venne acciuffato dalla CIA in Bolivia, uno degli agenti che lo interrogò dopo la cattura gli chiese cosa avesse da dire delle centinaia di esecuzioni di La Cabaña; ebbene, il “Che” rispose: “erano tutti agenti della CIA” (A. Vargas Llosa, op. cit., p. 22). Mutatis mutandis le parole del “Che” corrispondono alla giustificazione esibita, dal 1917 in poi, da tutti i dittatori sanguinari che si ispirano ad un ideale rivoluzionario “di sinistra”: essere in guerra contro i capitalisti nordamericani, presentarsi come i vendicatori dei popoli affamati dall’imperialismo statunitense. Questa etichetta, secondo quei dittatori, basta per ottenere il sostegno dalle moltitudini degli altri paesi e per far dimenticare del tutto i propri errori e i propri crimini. E Assad, com’è noto, è a capo di un governo che da decenni è in guerra con Israele e avverso agli Stati Uniti, un governo che per anni ha sostenuto politicamente e alimentato finanziariamente reti di terroristi, dagli hezbollah ai salafiti, dai talebani ai qaedisti. Come “Che” Guevara sapeva bene nel 1967, oggi anche Bashar al-Assad sa bene che per essere sostenuto da alcune forze politiche operanti in Europa è sufficiente essere antiamericani, anche se si massacrano civili inermi, anche se la propria ideologia, come ho spiegato nel post del 2 ottobre scorso, è più vicina al nazismo che al socialismo. Assad sa bene che in Europa essere antiamericani è più popolare che essere liberali; sa bene che per non pochi politici europei, e italiani soprattutto, è molto meglio essere contro la Casa Bianca che salvare migliaia di civili innocenti.

lunedì 24 dicembre 2012

Sanità e istruzione: la crisi del Welfare State



È passato quasi un mese dal mio ultimo post. Davvero troppo per un blog, me ne rendo conto. Del resto ogni volta che preparo un articolo sono solito informarmi, leggere, pensare e scrivere con attenzione. Non conosco un altro modo per preparare l’esposizione delle mie opinioni. Leggere, pensare e scrivere con attenzione sono tutte attività che richiedono tempo. E il tempo è appunto ciò che mi è mancato nelle ultime settimane. Vorrei poter promettere ai miei 25 lettori che non interromperò più così a lungo la vita di questo blog, ma non posso farlo: so che accadrà ancora, quando, imprevedibilmente, l’intersecarsi di lavoro e impegni personali mi ruberanno ancora il tempo. Perciò chiedo di nuovo perdono e pazienza a chi vuole seguirmi: ora sono qui, domani e nei prossimi giorni sarò ancora qui. Ma oltre l’orizzonte di qualche dì non spingo le mie previsioni. Se questa incertezza non vi disturba troppo, sapete dove trovarmi. Approfitto di questa premessa al post di oggi per augurare a tutti i lettori un sereno Natale.



Il Welfare State è in crisi! Viva il Welfare!



Franca Maino è una ricercatrice del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università di Milano. Dirige un gruppo di giovanissimi ricercatori che lavorano nel progetto “Percorsi di secondo welfare” (www.secondowelfare.it), nato nel 2011 da un’iniziativa del Centro di ricerca Luigi Einaudi di Torino e finanziato dal Corriere della sera, dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione Cariplo, dalla Fondazione con il Sud, dall’Ania e da alcune aziende italiane che da tempo investono nell’assistenza sociale (Luxottica e KME Group).
Franca Maino

Di recente la Maino ha pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista Il Mulino, attualmente diretta dall’economista Michele Salvati, da decenni rappresentante di un think tank laico e cattolico di segno progressista. L’articolo, comparso sul numero di ottobre della rivista, si intitola Un secondo Welfare per i nuovi bisogni (Il Mulino, n. 5, settembre-ottobre 2012, pp. 833-841). L’autrice sostiene che dopo “l’età dell’oro” del Welfare, verificatasi in Europa tra anni Cinquanta e Sessanta, a partire dalla crisi degli anni Settanta il Welfare State ha iniziato la sua parabola discendente in tutti paesi del continente, rivelandosi incapace di sostenere i nuovi bisogni e i nuovi rischi sociali, nonché i profondi cambiamenti demografici, economici, sociali e culturali che hanno accompagnato gli ultimi decenni. Di fronte a queste nuove sfide, le spese pubbliche sono divenute insostenibili, e nel frattempo il gettito fiscale che le alimentava si è progressivamente ridotto per effetto dell’arretramento della forza economica delle nazioni europee, incapaci di resistere alla concorrenza dei paesi che negli ultimi vent’anni sono stati avvantaggiati dalla globalizzazione: Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa (i cosiddetti paesi del gruppo BRICS).

I Paesi del gruppo BRICS

Di fronte a questa crisi, alcuni paesi sono riusciti a correggere la spesa pubblica, ricalibrandola e rivedendola, ma soprattutto seguendo rigorose politiche di bilancio in modo da mantenere in vita un Welfare “universalistico” e molto generoso: è il caso dei paesi scandinavi. Altri paesi non sono riusciti ad avviare manovre strutturali di correzione, così si sono trovati negli ultimi anni con una spesa pubblica fuori controllo. In queste nazioni, l’invecchiamento della popolazione e il drammatico calo del Pil hanno messo in crisi il Welfare, non solo perché la spesa pubblica non è stata più sostenuta da adeguati investimenti, non solo perché non si sono avviate politiche di rigoroso risanamento contabile, ma anche perché essa è quasi interamente assorbita dalle pensioni, mentre molto scarsi sono gli investimenti nelle cosiddette politiche di “nuovo Welfare” (ammortizzatori sociali per la disoccupazione, sostegno alla maternità, assistenza ai disabili, sanità, istruzione ecc.). In tal modo, in questi paesi si è creato anche un problema di forte disuguaglianza: alcuni settori della popolazione (quelli più anziani e quelli occupati in modo più stabile) sono molto tutelati; altri (quelli più giovani e quelli occupati in lavori precari) non lo sono quasi per niente. L’Italia è tra questi paesi.


Che fare? Di fronte al rischio di povertà che in Italia minaccia due famiglie su tre, di fronte alla disoccupazione giovanile, di fronte alla necessità di provvedere ad una crescente spesa sanitaria, causata dall’invecchiamento della popolazione e dal calo tendenziale del gettito fiscale (anche se si recuperasse l’evasione), infine di fronte al rischio che istruzione e formazione si impoveriscano sempre più per la riduzione delle risorse, chi deve farsi carico dei nuovi rischi e delle maggiori spese che ne deriveranno?

La risposta fornita dalla Maino, e sulla quale sta lavorando il gruppo di ricerca da lei diretto, è molto chiara: se non vogliamo veder naufragare completamente i settori della previdenza, dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale in genere, se non vogliamo veder fallire completamente gli Stati con la loro capacità di intervento sociale, dobbiamo costruire un “secondo Welfare”, in cui accanto all’intervento pubblico si preveda la possibilità di intervento per soggetti privati: “un nuovo Welfare mix, caratterizzato dall’ingresso nell’arena del Welfare di soggetti non pubblici come fondazioni bancarie e di comunità, aziende, sindacati, associazioni datoriali, imprese sociali, assicurazioni, rappresentanti del terzo settore e volontariato” (art. cit., p. 835).

Un mix, quindi, in cui a farsi carico della spesa pubblica non sia solo lo Stato, come è accaduto nel “primo Welfare”, ma anche privati che, all’interno di norme stabilite da apposite leggi, potrebbero integrare gli interventi pubblici laddove essi fossero insufficienti o assenti. È questo, appunto, il “secondo Welfare”. Sarebbe un Welfare integrativo, ed anche più flessibile perché darebbe spazio a soggetti che sono più collegati al territorio, quindi più in grado di adattarsi a specifiche necessità locali: la presenza di anziani non autosufficienti o di disabili bisognosi di particolare assistenza; la presenza di scuole popolate da molti studenti extracomunitari o con problematiche particolari; l’elevato tasso di malati affetti da una patologia specifica, e così via. Tutte situazioni per le quali è sempre difficile programmare gli interventi dall’alto e difficilissimo rivederli una volta che l’emergenza dovesse cessare. “Partire dai bisogni e dalle possibili soluzioni, per poi coinvolgere i finanziatori”: questo il motto a cui dovrebbe ispirarsi il secondo Welfare.
Maurizio Ferrera

La questione venne affrontata già due anni fa da due articoli, pubblicati dal Corriere della sera, che aprirono il dibattito sul secondo Welfare: si tratta dell’intervento di Dario Di Vico, Il Welfare dei privati che sostituisce lo Stato (Corriere della sera, 15 giugno 2010), e di quello di Maurizio Ferrera, Per il Welfare serve più spesa (dei privati) (Corriere della sera, 16 giugno 2010). Entrambi gli articoli descrivono una serie di esperienze dove il mix di cui parla la Maino sta funzionando: dai fondi integrativi pensionistici creati da aziende per i propri dipendenti, alle Società di Mutuo Soccorso (come la “Cesare Pozzo” di Milano) che erogano sussidi sanitari ai propri iscritti; dal fondo sanitario previsto nel contratto privato dei dipendenti del settore alimentare, all’assistenza sociale prevista in quello dei chimici; dall’housing sociale attuato da alcune fondazioni bancarie nelle province di Crema e Milano, all’inserimento occupazionale per ex carcerati e disabili organizzato da associazioni di volontariato sostenute da Regioni o Comuni. In alcuni paesi europei, come ricorda Ferrera, esempi di interventi come questi sono ormai diventati strutturali e sono tutelati da apposite norme. I passi più significativi fin qui sono stati compiuti dai paesi scandinavi, dalla Gran Bretagna di Tony Blair (e di recente dal progetto della Big Society di Cameron), dalla Germania e dalla Francia paesi, questi ultimi, nei quali la mutualità volontaria è più sviluppata che nei paesi mediterranei. Ferrera (filosofo di formazione, attualmente docente di Politiche Sociali e del Lavoro presso l’Università di Milano, nonché supervisore scientifico del progetto diretto da Franca Maino) ricorda che resta ancora molto da fare in Europa, perché spesso le iniziative di secondo Welfare sono state ostacolate dalla difesa corporativa di interessi settoriali, oppure fraintese come un tentativo di liquidazione delle politiche di spesa pubblica. Non si tratta di questo, invece, bensì di attribuire a parti della società una frazione di quegli oneri sociali che lo Stato non è più in grado di sopportare. Ferrera ricorda a questo proposito le parole di Ralph Dahrendorf (filosofo e sociologo tedesco molto amato dalla sinistra europea) che negli anni Ottanta affermò: “la condizione economica di molte famiglie consente di cercare un nuovo equilibrio fra prestazioni offerte e finanziate dalla collettività e contributo degli individui e delle loro associazioni”.

Ralph Dahrendorf (1929-2009)

Ha speranza di essere seguita questa strada in Italia? Se giudichiamo dai recenti eventi direi di no o, perlomeno, che sarà arduo, molto arduo anche solo imboccare il percorso normativo che essa richiederebbe. Mi riferisco a due eventi: le reazioni sollevate dalle dichiarazioni sulla Sanità pubblica dell’ex Presidente del Consiglio Monti; l’opposizione-crociata contro il ddl ex Aprea attuata soprattutto dagli studenti (di cui mi sono occupato nel post del 30 novembre).

“La sostenibilità futura dei sistemi sanitari nazionali”, ha dichiarato Mario Monti il 27 novembre scorso, “potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni. La posta in palio è altissima”. Parole che hanno scatenato un terremoto, tanto che Palazzo Chigi ha dovuto rettificare nella serata dello stesso giorno: “Le risorse ci sono, ma per il futuro serve più innovazione” (cfr. ad es.: Monti: “Servizio sanitario nazionale a rischio”, in Repubblica.it, 27/11/2012). Bersani ha subito affermato: “No a una sanità per ricchi!”; e la CGIL a ruota: “Se vuole privatizzare lo dica”; aggiungendo: “Monti vuole affamare la Sanità per poi svenderla!”. Non è stato da meno Antonio Di Pietro che ha strillato: “La sanità pubblica non si tocca! Questo governo sta lentamente smantellando lo Stato sociale!” (cfr. l'articolo sopra citato in Repubblica.it). Non si pensi che queste condanne siano arrivate solo dalla sinistra. La destra estrema, quella di Storace ad esempio, non è stata da meno: “Monti smantella il servizio sanitario”, titolava Il Giornale d’Italia del 27 novembre. E Girolamo Sirchia, che è stato Ministro della Sanità nel secondo governo Berlusconi, ha definito la dichiarazione di Monti “una sparata” che crea solo rabbia e allarme (cfr. il sussidiario.net, 28 novembre 2012). Non sono rimasti in silenzio neppure i “grillini” che, sul blog del loro vate, si sono sfogati con i soliti insulti e le solite bordate populiste (cfr. Full Monti, in Blog di Beppe Grillo del 27 novembre 2012 e giorni successivi).

Le espressioni più usate da tutti i critici di Monti sono state: “grave affermazione”; “inaccettabile”; “si vuole liquidare il Welfare”; “si vuole privatizzare la Sanità e fare arricchire la finanza e i capitalisti” e così via, seguendo un repertorio di slogan ideologici molto diffuso in Italia, questo sì davvero bipartisan perché condiviso da tutte le forze politiche, anche da quelle cosiddette “antisistema” come il movimento di Grillo. Analoghe erano state le reazioni al ddl ex Aprea, nei confronti del quale l’accusa di “privatizzazione” della scuola, del tutto pretestuosa e infondata, è nata in ambienti contigui a quelli di cui sopra. Ma su questo argomento mi sono già espresso.

Cosa accade alle menti degli italiani quando si accenna a riforme che mirano ad integrare il vecchio Welfare con iniziative provenienti dal mondo privato? Accade questo: la tradizionale sfiducia cattolica nei confronti del singolo, unita al pregiudizio marxista nei confronti di tutto ciò che ha a che vedere con l’iniziativa individuale producono una reazione socio-politica capace di generare una sorta di Santa Alleanza. L’obiettivo di questa è la difesa dell’esistente, soprattutto in relazione a tre ambiti: la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, la tutela pubblica sul lavoro. La difesa di questi tre ambiti per gli orfani del marxismo è diventata una sorta di ultima spiaggia nell’eterna sfida contro il "capitalismo affamatore delle plebi"; per il cattolicesimo sociale e statalista è diventata invece l’occasione per ripetere una tradizionale condanna pauperistica, quella contro il denaro che, come dicevano i monaci e gli eretici medievali, va disprezzato perché è lo “sterco del diavolo”. Secondo gli uni e gli altri, denaro, iniziativa privata, intervento del singolo e volontariato non devono trovare alcuno spazio in settori nei quali solo lo Stato ha il diritto di possedere il monopolio esclusivo.

Eppure in altri paesi l’hanno capito. Esiste l’intervento pubblico dello Stato, ma esiste anche il privato-pubblico: volontariato, cooperative, mutue, terzo settore onlus (non a caso denominato “privato-sociale”), fondazioni, aziende che investono nel sociale. Si tratta di realtà che, sebbene create da soggetti privati, producono servizi di pubblica utilità, affiancando o sostituendo le istituzioni dello Stato laddove queste non arrivano, non sono sufficienti o il cui intervento sarebbe troppo oneroso per i contribuenti. Come gli studi di Ferrera e Maino hanno dimostrato, questa è la strada che hanno imboccato in Europa le nazioni più evolute. Lo Stato deve fissare i criteri, certamente, deve esercitare il controllo, deve verificare l’efficacia del servizio erogato; perciò la sua funzione regolatrice non verrebbe mai meno. Ciò che verrebbe ridotto, se si lasciasse spazio a quei soggetti privati, sarebbe l’intervento diretto delle istituzioni pubbliche nell’erogazione del servizio. Riduzione non significa liquidazione, né privatizzazione. E del resto l’idea che solo lo Stato possa garantire equità, efficienza e democrazia è davvero balzana: burocrazia elefantiaca e monopolio non hanno mai prodotto buoni servizi, uguaglianza e libertà. Semmai, come la storia ci attesta, hanno contribuito a rafforzare il dispotismo e la corruzione. Forse noi italiani non riusciamo ancora a liberarci dall’eredità dello statalismo fascista che, come si sa, menava gran vanto di due sue caratteristiche ideologiche: l’anticapitalismo e l’anti individualismo.