sabato 1 giugno 2013

Errori e incontinenze di un leader

Il Grillo-padrone



Ha ragione Renzi: un partito che aspiri a governare il Paese non può fare a meno di un leader.


Un leader, innanzitutto, dovrebbe essere eletto democraticamente all’interno del suo partito, dovrebbe essere riuscito ad ottenere il consenso degli iscritti sulla base delle sue idee, del suo programma, dei suoi propositi. Di un leader siffatto si apprezzerebbero la capacità di parlare, la verve dialettica, la sicurezza nel mettere in difficoltà gli avversari, magari l’ironia. E, naturalmente, se ne apprezzerebbero gli argomenti, le proposte e, ancor di più, il realismo delle proposte. Un leader siffatto dovrebbe accettare sempre il confronto con gli avversari e con il pubblico, se fosse forte e sicuro dei propri argomenti. Un leader siffatto, infine, dovrebbe accettare per principio la logica della battaglia leale: se vincesse dovrebbe riconoscere l’onore delle armi al proprio avversario; se perdesse dovrebbe accettare la sconfitta e ammettere il valore di chi l’ha battuto.
 
Giovanni Verga (1840-1922)
Tutt’altra cosa è un padrone. Il proprietario di un movimento o di un partito non accetta di essere eletto o deposto dai suoi iscritti, come accade per il leader di un partito democratico. La sua creatura è frutto del suo investimento, è “roba” sua; perciò, se egli finisse nel fango o nella tomba pretenderebbe, come il Mazzarò di Verga, che la sua proprietà se ne andasse con lui, non accetterebbe di lasciarla nelle mani di un estraneo. Sì, di un estraneo: perché in un simile movimento anche gli iscritti, dal punto di vista del proprietario, sarebbero degli estranei, mere appendici di un organismo che è tutto dipendente dal suo padrone e dalle sue idee, naturalmente, ma anche dal suo carattere e dalle sue inclinazioni, persino dalle sue fobie e dalle sue ossessioni. Un movimento o partito di esclusiva proprietà di un solo soggetto non è un’organizzazione politica democratica, ma è un’azienda. E, come accade per tutte le aziende, la sua mission è di trovare la giusta strategia comunicativa per imporsi all’attenzione del pubblico, al fine di diffondere il più possibile il proprio prodotto, costituito in questo caso dalle personali convinzioni del proprietario. Un partito-azienda non convoca congressi per discutere con gli iscritti la propria linea politica; non seleziona il proprio personale attraverso competizioni basate sul confronto delle idee e degli argomenti; non si espone alle critiche dei propri avversari. Un partito-azienda ha un programma, certo, ma deciso e imposto dalla struttura proprietaria; ha i suoi iscritti e persino i suoi funzionari, ma scelti attraverso criteri imposti dal padrone il quale, alla fin dei conti, non accetterebbe mai di trovarsi tra i piedi qualcuno più forte di lui, più in gamba di lui, più carismatico di lui: sarebbe come cedere gratuitamente la proprietà della ditta a chi non ha investito nulla nella sua fondazione.


In Italia abbiamo due partiti che sono sorti e si sono imposti in questo modo: Forza Italia di Berlusconi e il Movimento 5 Stelle di Grillo. Eppure, sebbene accomunati da molte analogie (un fondatore-padrone; la completa dipendenza dalle risorse economiche di questo; l’impiego esplicito di potenti strumenti di comunicazione per imporsi all’attenzione del pubblico; l’uso di un linguaggio innovativo e dirompente, più simile a quello dello spettacolo che a quello della politica; l’assenza di una vera classe dirigente, interamente cooptata dal proprietario; l’allergia verso i congressi - che entrambi non hanno mai convocato; la venerazione per il capo; la scarsa, se non del tutto assente, democrazia interna), sebbene analoghe, dicevo, queste due organizzazioni, sorte entrambe sulle rovine di una repubblica (Forza Italia su quelle della prima; il M5S su quelle della seconda), sono profondamente diverse nell’azione politica. Il partito-azienda di Berlusconi bene o male ha accettato le regole del sistema rappresentativo, confrontandosi e persino mescolandosi con la vecchia classe dirigente; il partito-azienda di Grillo ha invece coltivato, fin dall’inizio, il mito della propria diversità e della propria purezza, rifiutando ogni collaborazione, ogni alleanza, ogni confronto.



Il M5S, per ordine del suo padrone, ha rifiutato di collaborare con il partito uscito semi-vincente dalle elezioni di febbraio; ha rifiutato di confrontarsi de visu con i suoi avversari; ha rifiutato di dialogare con i mass media nazionali. Ha preferito chiudersi su se stesso, ossessivamente concentrato su poche simboliche pratiche: il controllo delle spese dei deputati eletti; la negazione di interviste; l’espulsione dei trasgressori degli ordini padronali; la produzione in quantità industriali del dileggio, dell’insulto, dell’ingiuria rivolta alla persona dell’avversario, deriso per i suoi difetti fisici, per il suo accento, persino per la sua età.
 
Parlamentari 5 Stelle
In tal modo il M5S è precipitato in un baratro di paradossi. Un movimento nato con l’idea di portare la voce diretta dei cittadini in un sistema corrotto e ingessato, si è rivelato privo di democrazia proprio al suo interno; un leader che ha fatto della consultazione referendaria telematica uno dei suoi cavalli di battaglia, ha dimostrato di non saper accettare alcuna critica, sia che nasca dall’interno, sia che provenga dall’esterno del movimento; un programma innovativo, fino a rasentare l’utopia, è rimasto allo stadio di pura intenzione metafisica a causa del rifiuto categorico di ogni collaborazione con gli altri partiti; una campagna elettorale tutta protesa verso l’obiettivo del cambiamento, e addirittura della rivoluzione, si è capovolta in Parlamento nel suo contrario: immobilismo, assenza di azione e di decisione, mancanza di iniziativa.
 
Pier Luigi Battista, giornalista
del Corriere della sera

Questi paradossi hanno precluso al M5S la possibilità di dare il proprio contributo al cambiamento. Un’autoesclusione che ha un’unica causa: la volontà narcisistica del leader-padrone di anteporre la difesa della propria presunta purezza al bene della nazione. Solo così si possono spiegare i recenti scomposti interventi di Grillo, talmente privi di razionalità e di equilibrio da apparire quasi isterici: dalla scomunica comminata a Milena Gabanelli agli insulti nei confronti di Pier Luigi Battista e di Rodotà; dal non ammettere che quello presieduto da Letta è l’unico governo possibile (dato il rifiuto dei grillini di farne parte), alle colleriche accuse rivolte agli italiani per la recente debacle elettorale. Un comportamento che rischia di trascinare nella rovina un movimento che pure potrebbe avere potenzialità innovative: formato da nuovi volti, tutti estranei alla politica degli anni passati, il M5S, se liberato dalla tirannia di Grillo, potrebbe diventare protagonista di una politica di rinnovamento. Non è l’inesperienza dei deputati pentastellati a costituire un ostacolo a ciò, né la loro giovane età: esperienza e capacità si formano con il tempo, e ogni grande trasformazione della storia ha avuto bisogno dell’energia dei giovani per essere realizzata. Il vero ostacolo che impedisce al M5S di essere una risorsa politica per la democrazia è il suo leader e padrone, il signor Beppe Grillo. Purtroppo costui non cederà mai, di sua spontanea volontà, le redini del comando; c’è solo da sperare in una ribellione da parte degli iscritti e dei deputati, oppure in una scissione del movimento. L’ho già scritto una volta (post del 10 marzo scorso) e lo ripeto: grillini, svegliatevi! È ora che vi ribelliate a Mazzarò, il proprietario dell’organizzazione che, finora, ha rimediato solo una serie di brutte figure, coinvolgendo anche voi in un pessimo spettacolo, anzi usandovi come testa d’ariete per perseguire le sue finalità. Le quali, mi sia consentito dirlo senza apparire profeta di sventura, appaiono di giorno in giorno sempre meno limpide e sempre più pericolose.


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