lunedì 22 luglio 2013

Le origini della nostra crisi: una prospettiva storica

I due volti della globalizzazione: crisi in Occidente, sviluppo in Oriente.
(Prima parte)



La crisi che stiamo attraversando in Italia non è solo economica, non è solo finanziaria, e non è causata solo dalla pochezza dei nostri leader e dai limiti della nostra democrazia. Non è neppure soltanto una crisi italiana, ma condivisa da tutto l’Occidente, sia pure con intensità diversa e con differenti capacità di reazione ad essa. Anzi, a costo di apparire catastrofista, voglio aggiungere che si tratta di una crisi mondiale a cui non è sfuggito alcun paese, neppure i colossi dell’economia occidentale, come gli Stati Uniti o la Germania; neppure le nuove potenze economiche, quelle indicate dagli esperti con l’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Anche questi paesi stanno vivendo problemi simili ai nostri: calo degli investimenti, ritiro di capitali stranieri, aumento della disoccupazione, incremento del debito sovrano, contabilità dello Stato in disordine, rischio di aumento del malcontento e della conflittualità sociale. Quando una crisi è così ampiamente diffusa e condivisa, le cause vanno ricercate oltre il proprio giardino di casa, occorre spingere lo sguardo al di là del proprio naso e sollevarsi al di sopra delle beghe nazionali. Come insegnava Hegel, per cogliere l’universale e comprendere l’insieme, occorre purificare la coscienza dal particolare: “il vero è l’intero”. Qualche volta la filosofia hegeliana torna utile.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

Jeffrey G. Williamson (1935),
 professore emerito di Economia
nell'Università del Wisconsin
Ebbene, credo che l’intero verso cui dovremmo indirizzare lo sguardo sia la globalizzazione. Si tratta di un fenomeno iniziato molti decenni fa, forse già al termine del XIX secolo, quando, come ha spiegato lo storico dell’economia Jeffrey Williamson, incominciò la “convergenza” tra le economie delle due sponde dell’Atlantico (cfr. Jeffrey G. Williamson, Globalization, Convergence, and History, in The Journal of Economic History, n. 56, a. 1996, pp. 277-306). Secondo Williamson quella fu la prima globalizzazione, caratterizzata da crescita veloce, convergenza dei mercati delle merci, dei capitali e del lavoro. Prezzi, salari e interessi, in questa prima ondata, hanno cominciato a livellarsi e ad uniformarsi; insieme a tali fenomeni si è anche registrato uno spostamento di masse umane dall’Europa alle Americhe, fatto che ha contribuito fortemente all’integrazione dei salari tra i due continenti. L’esodo migratorio ha infatti sgonfiato il mercato del lavoro europeo, saturo e sovraffollato, spingendo i salari, fino a quel momento molto bassi, al rialzo; all’opposto negli Stati Uniti, che hanno assorbito gran parte dei migranti, il mercato del lavoro, fino a quel momento lacunoso, si è riempito, spingendo i salari, allora molto alti (furono infatti uno dei “fattori di attrazione” degli immigrati) verso il basso.



A questo periodo florido, durato fino alla prima guerra mondiale, ne è poi seguito uno di lenta crescita, de-globalizzazione e divergenza, coincidente con il periodo tra i due conflitti mondiali, la diffusione dei regimi totalitari (regimi che nazionalizzarono l’economia, o attraverso il dirigismo, o attraverso la pianificazione), la crisi e la segmentazione dei mercati, l’arretramento dei sistemi liberal-democratici e dell’economia di libero scambio. Questo secondo periodo culmina con la seconda  guerra mondiale.
 
Il simbolo dell'AFL
È fin troppo ovvio osservare (ma forse non è ovvio per tutti) che l’epoca della prima globalizzazione è stata caratterizzata da aspetti più o meno positivi dal punto di vista sociale, così come la successiva epoca di de-globalizzazione. Ad esempio, tra fine Ottocento e 1918 la classe operaia del mondo industrializzato ha ottenuto avanzamenti significativi, sia dal punto di vista economico (giornata lavorativa di 8 ore, salari in media più elevati, specie in Europa, rispetto al 1870, riconoscimento delle organizzazioni sindacali), sia dal punto di vista politico (estensione del diritto di voto). D’altro canto i conflitti non sono mancati: negli Stati Uniti d’America le proteste del sindacato AFL (American Federation of Labour) furono molto dure nel primo decennio del Novecento perché gli operai meglio retribuiti, e rappresentati da questa organizzazione, temevano la concorrenza dei lavoratori dequalificati provenienti dall’Europa e soprattutto di quelli immigrati dall’Asia, temevano cioè che la loro presenza sul suolo americano avrebbe fatto calare i loro salari, come poi accadde. Dopo la Grande guerra le proteste di questo sindacato raggiunsero il loro obiettivo: convincere il governo americano a controllare, ostacolare e ridurre l’immigrazione, fissando dei limiti all’ingresso di nuova forza lavoro negli States. Il primo Emergency Quota Act fu infatti del 1921: esso stabilì che sarebbe stato ammesso solo il 3%, di europei ed asiatici, rispetto al numero dei residenti della stessa nazionalità presenti negli Usa al censimento del 1910. Con tale formula gli immigrati accolti negli Stati Uniti passarono dagli oltre 800.000 del 1920, ai poco più di 300.000 del 1921-22. L’Immigration Act del 1924 ridusse la quota al 2%, dimezzando l’immigrazione annuale che nel biennio ’24-’25 si attestò sulle 165.000 unità.
Sciopero di minatori in Pennsylvania, 1897
Anche in Europa i conflitti non mancarono. Per restare alla sola Italia, fu proprio nel primo decennio del Novecento che il movimento operaio sperimentò le forme più organizzate e più radicali di lotta, come lo sciopero generale: il primo nel nostro paese si svolse nel 1904.






Sciopero generale a Napoli nel 1904


L'imperialismo europeo in Africa
L’aspetto forse più ambiguo della prima globalizzazione fu l’imperialismo europeo verso Africa e Asia. Fu una politica di potenza e di espansione territoriale diretta all’esterno del Vecchio mondo, alla ricerca di materie prime e soprattutto di mercati. Fu un fenomeno in espansione fino alla vigilia della prima guerra mondiale, quindi si consumò in pochi decenni; poi cominciò il fenomeno opposto, la decolonizzazione, che si concluse dopo il secondo conflitto mondiale. L’ambiguità dell’imperialismo sta nel fatto che da un lato fu provocato dalla globalizzazione, poiché la crescita economica da questa generata obbligò le nazioni europee, i cui confini erano ormai definiti e rispettati da tutti, a cercare un sbocco al surplus produttivo, visto che i rispettivi mercati interni erano insufficienti ad assorbirlo. Dall’altro lato, però, l’imperialismo creò mercati protetti e sottratti alla spinta della globalizzazione, ognuno governato da una nazione del Vecchio continente che così mise al riparo dai rischi della libera concorrenza una parte delle proprie risorse. Infine l’imperialismo contribuì a provocare conflitti tra le nazioni, cosicché la speranza coltivata dagli europei (da Bismarck, in particolare) di dirottare le tensioni verso l’esterno, si rivelò mal riposta, poiché gli attriti vi furono lo stesso e si riversarono nelle politiche estere seguite dagli Stati, rendendole diffidenti, preoccupate, arcigne e bellicose. Le ostilità avrebbero avuto modo di scontrarsi e mettersi alla prova nel corso della Grande guerra. La potente spinta verso l’omologazione, creata dall’integrazione economica, causò insomma un movimento opposto, attraverso le scelte che essa stessa suggeriva e imponeva.
 
Imperialismo europeo in Asia




dittature e democrazie alla vigilia della
seconda guerra mondiale
D’altro canto anche il successivo periodo di de-globalizzazione, come dicevo, non fu esente da aspetti negativi. Se da un lato le dittature (comunista, fascista e nazista) garantirono un decennio di relativa stabilità alle economie dei rispettivi paesi (dal 1920 al 1929), e attenuarono, attraverso la nazionalizzazione, gli effetti più distruttivi della crisi del 1929, dall’altro lato ciò fu possibile al prezzo di durissimi sacrifici da parte delle popolazioni che subirono quei regimi (si pensi ai morti provocati dal “comunismo di guerra” in Russia, durante la guerra civile; o a quelli provocati, sempre nell’Urss, dalla collettivizzazione delle campagne negli anni Trenta), e al prezzo della totale privazione della libertà politica e civile in tutt’e tre le forme di totalitarismo. Ma ciò che più occorre ricordare è che quei regimi poterono prosperare grazie alla guerra: negatori dell’economia liberista, avversari della globalizzazione da essi giudicata fattore di corruzione etnica, culturale, ideologica, contrari alla collaborazione con le democrazie occidentali, sostenitori di un’economia chiusa e di potenza, essi cercarono di far crescere la loro ricchezza nell’unico modo possibile ad uno stato contrario al libero commercio, ovvero ricorrendo a guerre di conquista. L’Urss, al termine della guerra civile (1917-1921), si era allargata verso oriente e aveva riconquistato parte dei territori ceduti nel 1918 con la pace di Brest-Litovsk; nel 1939, a seguito del patto di non aggressione con la Germania, conquistò parte della Polonia, i paesi baltici, la Finlandia, la Romania e la Mongolia. L’Italia tra 1931 e 1939 riconquistò la Libia, si impossessò dell’Etiopia e occupò l’Albania. La Germania nazista, infine, fece della conquista dello “spazio vitale” il principale obiettivo ideologico, messo in atto con il secondo conflitto mondiale. La de-globalizzazione, in definitiva, fu accompagnata da eventi catastrofici, poiché la fine dell’integrazione economica lasciò campo libero alle rivalità politiche e ideologiche che finirono per corrompere le relazioni tra gli stati e generarono la guerra. (1-continua)

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