giovedì 25 luglio 2013

Settantesimo anniversario del 25 luglio 1943

Fine di una dittatura.
Dino Grandi e la seduta del Gran Consiglio del fascismo
(prima parte)

La seduta del 24-25 luglio 1943 del Gran Consiglio del fascismo

Oggi è il 70° anniversario della seduta del Gran Consiglio del fascismo che depose Mussolini e pose fine alla dittatura. Per questo dedicherò due post ad uno degli avvenimenti più importanti della nostra storia contemporanea. Negli anni Sessanta e Settanta schiere di giovani studenti sono stati indottrinati, insegnando loro che il fascismo è caduto grazie alla lotta del popolo guidata dai partigiani. Una rivoluzione, quindi, avrebbe sconfitto e abbattuto il regime, poiché, come si spiegava allora nei licei, il popolo italiano era del tutto avverso al fascismo, e aveva subito la dittatura per vent’anni senza mai accettarla, piegando la testa per necessità davanti alla spietata violenza del regime.

Lo storico Renzo De Felice (1929-1996)

Era questa la cosiddetta “vulgata dell’antifascismo” che conteneva solo una piccola parte di verità, come vedremo al termine di queste due puntate. Oggi questa “verità convenzionale” è stata messa in discussione e, contro essa, è stata fatta valere la forza inoppugnabile dei fatti. Merito principale di questa operazione (che alcuni hanno voluto chiamare, spregiativamente, “revisionista”) va a Renzo De Felice e alla sua monumentale biografia su Mussolini (vedi nota 1), pubblicata tra gli anni Sessanta (in un’epoca in cui il clima politico gli era fortemente avverso) e i Novanta (quando ormai anche i suoi più irriducibili nemici, come Nicola Tranfaglia, cominciavano ad ammettere la fondatezza degli argomenti di De Felice). Su di essa baserò la narrazione che segue, in specie sul volume IV-1, intitolato Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra (1940-1943), e in modo particolare sul secondo tomo di questo, a cui De Felice attribuì il significativo titolo Crisi e agonia del regime (Torino, Einaudi, 1996).



Non mi soffermerò, quindi, sullo sbarco degli Alleati in Sicilia (10 luglio 1943), evento al quale si deve la crisi conclusiva del fascismo: non tanto perché non si tratti di questione importante, poiché lo è, dal momento che da esso arrivò in effetti la fine della dittatura. Non lo tratterò, perché oggi ricordiamo il 25 luglio 1943, quando Mussolini venne deposto, avvenimento che fu senz’altro provocato dallo sbarco alleato, ma che ebbe comunque una sua dinamica autonoma, un suo perché e un suo come. È su questi aspetti che mi soffermerò, a cominciare dall’uomo che tramò contro il duce: Dino Grandi.





Il piano alleato per lo sbarco in Sicilia (operazione Husky)


Com’è noto, infatti, la deposizione del dittatore si dovette alla votazione, da parte della maggioranza dei membri del Gran Consiglio, dell’ordine del giorno Grandi. Perciò il personaggio e le motivazioni che lo spinsero a quel passo costituiscono fonte di interesse per lo storico che voglia capire come si arrivò al voto del fatidico giorno.
La vicenda personale di Dino Grandi (1895-1988) è inoltre utile per comprendere quella peculiarità del fascismo che la Arendt definì “totalitarismo imperfetto”. Uomini come Grandi, infatti, erano ben lontani dall’essere succubi devoti al leader; egli, come altri fascisti del resto, covò contro Mussolini un sordo ma motivato dissenso, il quale era aumentato mano a mano che l’edificio della dittatura era stato portato a termine.





Dino Grandi (1895-1988)

Alla vigilia della prima guerra mondiale, Grandi (avvocato di professione) fu vicino al Psi: così conobbe Mussolini, che era ancora su posizioni socialiste-rivoluzionarie, con cui approfondì l’amicizia negli anni dell’interventismo. Dopo la guerra, a cui partecipò, Grandi aderì al fascismo, anzi fu tra i fondatori dei fasci emiliani tra il 1920 e il 1921, molto vicino alle posizioni dello squadrismo più facinoroso: nel giugno 1921 guidò l’assalto al circolo socialista “Andrea Costa” di Imola; l’anno dopo guidò 2000 camicie nere all’occupazione di Ravenna. Il suo prestigio crebbe così tanto all’interno del movimento fascista che prima del congresso del Pnf del novembre 1921, tenuto a Roma, egli fu il potenziale avversario e sostituto di Mussolini alla guida del partito. Suo punto di forza, in quel momento, era l’avversione al progetto di Mussolini di realizzare un patto di pacificazione e collaborazione con i socialisti. Nel corso del congresso di Roma, Grandi accettò la subordinazione al capo in cambio della cancellazione di questa proposta.


Grandi ambasciatore a Londra: qui
con il segretario di Stato britannico
John Simon

Malgrado l’impetuoso avvio, con il tempo Grandi divenne l’anima moderata del fascismo, insieme a Bottai, Balbo e Federzoni; mentre Starace, Farinacci e De Bono ne rappresentarono l’anima più populista e manesca. E infatti dopo il 1922 Grandi ricoprì incarichi nei quali servivano moderazione, diplomazia, buone maniere: sottosegretario all’interno e agli esteri dal 1924 al 1929, ministro degli esteri dal 1929 al 1932, ambasciatore a Londra dal ’32 al ’39, successivamente ministro della giustizia e infine presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni. La rete consolare da lui creata, capillare ed efficiente, è ancora in parte esistente, inoltre lo spirito con cui svolse l’incarico di ministro degli esteri fu di moderazione e di collaborazione con le altre nazioni. In tal modo contribuì non solo ad accrescere il prestigio internazionale dell’Italia, ma soprattutto a rendere affidabile la politica estera italiana, malgrado i proclami aggressivi del duce. Nelle relazioni con Francia e Inghilterra lasciò persino trapelare che l’Italia sarebbe stata disponibile a discutere del disarmo. Fu questo che obbligò Mussolini a prestare attenzione al comportamento del suo ministro degli esteri, del quale temeva il prestigio, come in passato ne aveva temuto la reputazione all’interno del partito. Sicché lo rimosse dal ministero e lo spedì a Londra: promoveatur ut amoveatur. Qui, come ambasciatore, cercò di convincere la classe dirigente britannica ad avvicinarsi all’Italia e a prendere in considerazione una possibile alleanza. Trovò udienza in Churchill, allora ancora ben disposto verso il fascismo, ma quando Mussolini sottoscrisse l’Asse (1936) la sua iniziativa venne stroncata.
Achille Starace (1889-1945)
Rimase sempre un po’ distaccato e in conflitto con la classe dirigente fascista che egli reputava provinciale, poco raffinata, populista e un po’ ruffiana: egli amava invece l’indipendenza di giudizio e la raffinatezza dei modi, vantava amicizie altolocate all’estero (solo Ciano, divenuto ministro degli esteri nel 1936, poteva vantare uguali relazioni), simpatie all’interno della monarchia (Vittorio Emanuele III lo nominò conte di Mordano e gli conferì anche il Collare dell’Annunziata, con la conseguenza di diventare “cugino del re”). In particolare Grandi detestava personaggi come Achille Starace (nominato segretario del Pnf nel 1931), ideatore delle più goffe campagne propagandistiche del regime (l’italianizzazione dei cognomi, il saluto romano a 170°; il “voi” al posto del “lei”, l’obbligatorietà della divisa il sabato – il sabato fascista, le manifestazioni ginniche con il salto nel cerchio di fuoco, l’uso di espressioni liturgiche come “granitico blocco”, “adunate oceaniche”, le scritte con slogan fascisti sulle facciate delle case, l’uso dell’orbace…). Di Starace, Grandi diceva che era il prototipo dello “stupido in orbace”, in fondo non cattivo, ma un “pover’ uomo”. Rappresentava l’idiota obbediente, devoto al duce fino a diventare ridicolo. Alle perfidie di Grandi, una volta pare che Mussolini abbia risposto: “è vero, Starace è un cretino, ma è obbediente”. Mentre Grandi era spesso insubordinato. In effetti pare avere confidato a Ciano, nel 1942: “Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista per vent’anni”.
 
Galeazzo Ciano (1903-1944), genero di
Mussolini, più volte ambasciatore
e ministro

Per Grandi fedeltà non era sinonimo di obbedienza: “non ho mai considerato Mussolini – scrisse nelle sue memorie– come un essere cui mi sentivo legato da obblighi di fedeltà personale e cieca […]. Non è stato per me, mai, altro che uno strumento di bene, o di male, per il paese. È al paese, non a lui, cui sentivo il dovere di essere fedele” (D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 381, cit. in R. De Felice, op. cit., p. 1230). Sicché assunse sempre posizioni decise autonomamente e solo in qualche caso coincidenti con quelle di Mussolini e del fascismo. Dall’epoca del suo impegno come ambasciatore a Londra, cominciò a ritenere il fascismo un fenomeno transitorio, manifestò scarso interesse per le fumisterie ideologiche, a cominciare dal corporativismo, prese ad ammirare l’Inghilterra, cominciò a non scoprirsi troppo, a rimanere appartato il più possibile a non confondersi con gli altri gerarchi: cose che non lo rendevano simpatico. Ciano era invidioso di lui e delle sue entrature internazionali; Bottai gli rimproverava di non sbilanciarsi mai e di essere aristocratico e anglofilo; Farinacci di essere un doppiogiochista; Mussolini di non essere obbediente e di essere poco affidabile come fascista. Con alcuni di costoro, ad esempio Bottai e Ciano, entrò in sintonia dopo lo scoppio della guerra, perché come lui diventarono contrari alla partecipazione italiana al conflitto.
 
Giuseppe Bottai (1895-1959), anche lui
più volte ministro
Tutto ciò è importante per capire il comportamento di Grandi dal 1942 al 1943. Nel ’42, appunto, confidò a Ciano e a Bottai che occorreva scindere il fascismo, ma soprattutto l’Italia, dalla figura del duce e dagli errori del regime. Secondo lui, occorreva riconoscere il fallimento della dittatura, e quindi effettuare un vero e proprio “suicidio” per salvare la nazione. Scrisse nel suo diario un paio di mesi prima del 25 luglio: “Siamo noi che, indipendentemente dal nemico, dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. […] Mussolini, la dittatura, il fascismo devono sacrificarsi, cedere il posto ad una nuova classe dirigente. Debbono ‘suicidarsi’ dimostrando con questo sacrificio il loro amore per la Nazione” (cit. in R. De Felice, op. cit., 1201). Grandi sapeva che gli anglo-americani, avendo stabilito a Casablanca, nel gennaio 1943, il principio della “resa incondizionata”, non sarebbero stati clementi con l’Italia, ma nelle loro dichiarazioni ufficiali gli Alleati dicevano di non essere nemici del popolo italiano, bensì solo della dittatura fascista. “Questa, si capisce, è mera propaganda di guerra – annotò alla data del 20 maggio ’43 – […]. Ma noi dobbiamo fare finta di credere ai discorsi di Churchill e di Roosevelt ed operare noi, da soli, come atto di volontà nostra, il chirurgico distacco del regime di dittatura dalla Nazione”. Grandi era consapevole delle difficoltà che un simile progetto avrebbe incontrato, e infatti, proseguendo la sua lunga annotazione, scrisse: “Come può in pratica avvenire tutto ciò? Mussolini non cederà mai il suo posto di comando”. Perciò occorreva un piano, magari temerario ma inevitabile, se si voleva salvare l’Italia. Il piano e la sua realizzazione saranno l’argomento del prossimo post. (1-continua)


1) La biografia di De Felice su Mussolini si compone dei seguenti volumi, tutti editi da Einaudi: vol. I: Mussolini il rivoluzionario (1883-1920); vol. II: Mussolini il Fascista, suddiviso in: vol. II-1: La conquista del potere (1921-1925), vol. II-2: L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929); vol. III: Mussolini il duce, suddiviso in: vol. III-1: Gli anni del consenso 1929-1936, vol. III-2: Lo Stato totalitario 1936-1940; vol. IV: Mussolini l’alleato, suddiviso in: vol. IV-1: L’Italia in guerra 1940-1943 (diviso, a sua volta, in due tomi: Dalla guerra breve alla guerra lunga; Crisi e agonia del regime); vol. IV-2: La guerra civile 1943-1945. Il primo volume fu pubblicato nel 1965, l’ultimo, postumo, nel 1997.


L'ultimo volume della biografia defeliciana
su Mussolini: pubblicato postumo,
si intitola La guerra civile 1943-1945



Nessun commento:

Posta un commento