sabato 27 luglio 2013

Settantesimo anniversario del 25 luglio 1943: seconda parte

Fine di una dittatura.
Dino Grandi e la seduta del Gran Consiglio del fascismo
(seconda e ultima parte)

Dino Grandi (primo a sx) ambasciatore a Londra

Ecco il piano di Grandi, che egli stesso giudicò “temerario”. Primo: convincere il re a deporre Mussolini, a nominare un primo ministro e un governo del tutto nuovi. Grandi pensava al Maresciallo Caviglia, perché non compromesso con il regime: “Caviglia, – scrisse Grandi nella già citata lunga annotazione di diario che verrà pubblicata nelle sue memorie – nemico personale di Badoglio, è il solo fra i grandi capi militari della prima guerra mondiale che non abbia fornicato col fascismo e dimostrato servilità al Duce”. Secondo: con il nuovo governo gli italiani, raccolti attorno al re, avrebbero dovuto rivolgere le armi contro la Germania: “Se vogliamo riacquistare le nostre libertà – prosegue Grandi - dobbiamo dimostrare agli anglo-americani che siamo pronti a pagare il prezzo, senza attendere che la libertà ci venga regalata dalla sconfitta. Sarebbe questa una libertà pagata a un duro prezzo. E allora? Allora è necessario, è indispensabile, è inevitabile che siamo noi a prendere l’iniziativa di guerra contro la Germania nazista, contro il nostro potente e prepotente alleato. […] Agli anglo-americani non dobbiamo domandare nulla, ma soltanto farli trovare improvvisamente di fronte allo spettacolo di una Italia che si difende colle armi in pugno contro quella che sarà l’inevitabile vendetta della Germania nazista. Come potranno gli Alleati continuare a combattere contro una Nazione che già per conto proprio ha preso a combattere contro il nemico comune, con in testa il suo Re attorno al quale si stringeranno tutti gli Italiani? Non vedo altra via di scampo, se non questa. L’Italia dovrà attraversare un nuovo e forse più doloroso Calvario. Questo sarà il prezzo del suo riscatto. […] questo piano – concludeva G. - è condizionato […] da tre presupposti: il coraggio della Monarchia; l’intelligenza degli Alleati; il patriottismo degli antifascisti. Si verificheranno questi presupposti e queste condizioni? Non lo so. Ma lo spero” (cit. in De Felice, op. cit., p. 1203: per il titolo dell’opera vedere il precedente post).
Mentre Grandi dimostrava con questi propositi di avere grande lucidità, Mussolini sembrava impotente; il re intrappolato nell’indecisione dagli scrupoli giuridici (era preoccupato di muoversi rispettando lo Statuto), dal timore di suscitare reazioni vendicative da parte della Germania, dal suo scetticismo che lo conduceva ad essere malfidato nei confronti di tutti, a non nutrire speranze per alcuna soluzione.
 
Maria Josè di Savoia (1906-2001)
Dopo i tracolli militari dell’Asse in Africa e in Russia, cominciò un vorticoso giro di rapporti tra Ciano, Bottai, Grandi e gli angloamericani, grazie alla mediazione di monsignor Montini e di Maria Josè, la consorte del principe ereditario Umberto. Tra gennaio e luglio 1943, in questi ambienti si sondarono diverse strade per far uscire l’Italia dalla guerra; Mussolini invece puntava sulla chiusura del fronte russo, al fine di potersi concentrare sul Mediterraneo. Solo dalla primavera del 1943 cominciò a prendere in considerazione l’uscita dell’Italia dal conflitto, ma, stando a quel che riferirono le persone a lui più vicine, confessò che gli sarebbe servito tempo per convincerne Hitler. I documenti riservati degli Affari Esteri, analizzati da De Felice, mostrano in effetti un Mussolini preoccupato, ma incapace di decidersi in un senso piuttosto che in un altro, assalito da continui e improvvisi cambiamenti di umore. Di fronte a questa situazione, che sembrava di ora in ora sempre più senza via di uscita, si fece strada l’idea che la soluzione fosse nell’esautorare il duce. Però tutti i personaggi del fascismo coinvolti nel percorso che portò alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio erano sfiduciati sulla possibilità di ottenere questo risultato; inoltre nessuno, eccetto Grandi, aveva chiarezza di idee su cosa occorresse fare poi. Se la seduta del Gran Consiglio ebbe l’esito che ebbe il merito fu di Grandi, “di un uomo cioè – ha scritto De Felice – del quale tutto si può dire salvo che mancasse di idee chiare e di decisione e di quel tanto di spregiudicatezza necessaria a mettere d’accordo e a far procedere insieme una serie di personaggi in gran parte sfiduciati” (R. De Felice, op. cit., p. 1227).
 
Vittorio Emanuele III (1869-1947)

Stando al Diario di Grandi, fu questi a proporre il piano al re in un’udienza riservata avuta con il sovrano il 4 giugno; il re approvò, ma pretese che vi fosse il parere favorevole di un organo costituzionale, come il Parlamento o al più il Gran Consiglio del fascismo: “io sono un re costituzionale […] deve essere il parlamento ad indicarmi la strada”, disse a Grandi nel colloquio. Più scettico invece si mostrò sulla possibilità di rivolgere le armi contro la Germania: egli voleva esautorare Mussolini e poi sottoscrivere una pace separata con gli anglo-americani. Di fronte alle perplessità di Grandi che contestava sia la pretesa di far decidere ad un organo costituzionale, sia la pace che avrebbe suscitato comunque la reazione vendicativa della Germania, il re rispose: “Ella si fidi del suo re e lavori a facilitarmi il compito mobilitando l’Assemblea legislativa e magari il Gran Consiglio come surrogato del Parlamento. […] Si fidi del suo re” (cit. in R. De Felice, op. cit., p. 1237). E chiese a Grandi di mantenere il più assoluto segreto su questo incontro. Grandi nel Diario annota che dopo il colloquio con il re uscì dal Quirinale parzialmente rinfrancato; ma allo stesso tempo preoccupato che il re potesse approfittare di quel silenzio che gli aveva chiesto per tergiversare, per non decidere o per mutare ancora idea (cfr. ibidem nota 1). Comunque tenne per sé il segreto del colloquio e partì per Bologna, dove attese l’evolversi degli eventi.
 
L'incontro di Mussolini e Hitler
nel luglio 1943
Ovviamente la situazione precipitò subito dopo lo sbarco in Sicilia degli anglo-americani: il 18 luglio, infatti, Grandi venne informato che alcuni gerarchi del fascismo avevano chiesto un’urgente convocazione del Gran Consiglio, perciò tornò a Roma. Mussolini il 19 ebbe un incontro inconcludente con Hitler a Feltre: vi era andato per ottenere lo sganciamento dell’Italia dalla Germania, così almeno raccontò il generale Ambrosio presente al meeting, ma Mussolini non riuscì neppure a prospettare la cosa a Hitler. I partecipanti raccontano di un Mussolini ammutolito dall’apprendere che proprio in quel giorno Roma veniva pesantemente bombardata dagli Alleati. Fatto sta che perse un’occasione storica per porre fine alle sofferenze dell’Italia. Poi il 22 accettò di convocare il Gran Consiglio per il 24 luglio alle ore 17. Si è molto discusso in sede storiografica sul perché Mussolini abbia accettato di firmare la convocazione, se fosse o meno consapevole dei rischi che stavano correndo lui e il fascismo. Tanto più che alcune fonti fanno pensare che conoscesse il contenuto dell’odg che Grandi avrebbe presentato (lo dice, ad esempio, Grandi stesso nel suo Diario). Perché allora convocarlo? Perché non dare ascolto a chi lo metteva in guardia e cercava di dissuaderlo dall’accettare l’incontro (cercarono di fargli cambiare idea Suardo, presidente del Senato, Farinacci, Cianetti, la stessa moglie Rachele)?
Il pesante bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma, il 19 luglio 1943
La risposta sta forse nel fatto che M. non attribuiva grande importanza al Consiglio (che aveva anche un profilo istituzionale molto impreciso, organo più consultivo che deliberativo), e che anzi la riunione per lui sarebbe servita per dare soddisfazione ai richiedenti e tacitare i più irrequieti, per “guardarli negli occhi e metterli in riga”, come disse alla moglie. E a Suardo, che poco prima della seduta cercò di metterlo in guardia, disse: “voi siete catastrofico, Suardo, sarà una riunione informativa” (cit. in R. De Felice, op. cit., pp. 1347-1348). Che non prevedesse una seduta lunga e accalorata lo dimostra il fatto che alla sua segreteria particolare lasciò l’ordine di mettere in calendario, per la serata, la solita udienza con Ambrosio (Capo di Stato Maggiore Generale) per fare il punto sulla situazione militare. Del resto nei giorni tra il 19 e il 25 il re non aveva preso decisioni significative: il 22 Vittorio Emanuele III aveva avuto un incontro con Mussolini, ma non gli aveva comunicato nulla di significativo. Piuttosto fu il duce a chiedere al sovrano due mesi di tempo prima di prendere decisioni radicali (di cosa parlava? Di una pace separata? Di uno sganciamento dalla Germania?) e il re glieli concesse: cosa che spiega come mai Mussolini si fidasse del sovrano e non temesse le deliberazioni del Gran Consiglio; cosa che spiega anche come mai si sarebbe di nuovo recato tranquillamente da Vittorio Emanuele dopo la seduta del Gran Consiglio.
 
Pagina del verbale della seduta del GC del fascismo
con l'odg Grandi (ringrazio per le immagini
dei documenti il sito instoria.it)
La riunione fu convocata ufficialmente per discutere la gravissima situazione militare. Essa cominciò, alle 17 del 24 luglio 1943 (la ricostruzione dei complessi retroscena che portarono al 25 luglio è in R. De Felice, op. cit., pp. 1246-1362; la narrazione della seduta è alle pp. 1362-1383), con la relazione introduttiva di Mussolini che affermò la necessità di rispettare il patto con la Germania; seguì la presentazione delle mozioni. Quella di Grandi chiedeva il ripristino delle funzioni statali e del normale ordine costituzionale, con la consegna al re del comando delle Forze Armate, come stabiliva l’art. 5 dello Statuto che assegnava al sovrano questo potere. Farinacci presentò una mozione che egli descrisse come alternativa a quella di Grandi, ma che nella sostanza diceva le stesse cose: ripristino dei poteri del re. Infine Carlo Scorza presentò un odg di sostegno a Mussolini.

Le firme dei membri del GC in calce al verbale
La discussione che seguì fu surreale: Mussolini si difese, anche con forza, senza rinunciare alla sua abilità dialettica (disse ad un certo punto, quasi a voler rivolgere un ricatto ai gerarchi: “Signori, attenzione! L’odg Grandi può porre in gioco l’esistenza del regime. Signori, vi siete prospettata questa ipotesi?”), ma nel complesso lasciò che gli umori dei gerarchi si sfogassero, sicuro di avere dalla sua parte re ed esercito. La maggioranza dei membri parlò a favore dell’odg Grandi, giustificando la scelta come un favore verso Mussolini, poiché così lo si sarebbe sgravato delle difficili decisioni che si sarebbero dovute assumere e si metteva la patata bollente nelle mani della monarchia. Grandi stesso presentò la propria iniziativa come un modo per tirar fuori il duce dai pasticci, anzi lo elogiò per tutto quel che aveva fatto fino a quel momento. Nessuno, a parte Grandi, sembrava rendersi conto di quanto gravi sarebbero state le conseguenze di quell’odg. Fu Mussolini stesso a volere che si votasse per primo l’odg di Grandi: erano ormai le due e mezzo della notte. La votazione diede 19 voti favorevoli (tra i quali, oltre a Grandi, i più noti furono Giuseppe Bottai, Cesare Maria De Vecchi, Galeazzo Ciano, Luigi Federzoni, Giacomo Acerbo, Dino Alfieri, Emilio De Bono, Edmondo Rossoni), 8 contrari (tra cui Carlo Scorza, Farinacci, Buffarini-Guidi), 1 astenuto (Giacomo Suardo). A quel punto Mussolini ritenne che fosse superfluo votare gli altri due odg, sicché, alle 2.40 del 25 luglio, dichiarò conclusa la seduta.

Il proclama di Badoglio
Il Corriere della sera del 26 luglio 1943
La giornata del 25 luglio passò senza che trapelasse alcuna notizia. Alle 16 Mussolini, come ho già detto, si recò dal re con in mano l’esito della votazione e la legge istitutiva del Gran Consiglio, la quale stabiliva che tale organo era solo consultivo. Ma il re stavolta fu risoluto: gli comunicò di averlo sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio e subito dopo lo fece arrestare. Solo alle 22.45 fu data la notizia, con comunicato ufficiale, cui seguì il famoso discorso radiofonico di Badoglio, nel quale il maresciallo diceva: “la guerra continua a fianco dell’alleato germanico”. Dopo la costituzione della Rsi, furono condannati a morte tutti i membri del Gran Consiglio che avevano votato l’odg Grandi, tranne Tullio Cianetti che il giorno successivo alla fatale seduta aveva scritto a Mussolini per ritrattare il suo voto (Cianetti fu condannato a 30 anni di reclusione). Ben 13 dei votanti si erano messi in salvo per lo più espatriando, sicché il processo di Verona che comminò le pene (gennaio 1944) emise le sentenze in contumacia. La pena capitale venne eseguita solo per 5 persone: Ciano, De Bono, Giovanni Marinelli, Carluccio Pareschi, Luciano Gottardi. Grandi si era messo in salvo in Spagna già all’inizio di agosto, poi si trasferì in Portogallo dove visse fino al 1948. Tornò in Italia negli anni Sessanta per aprire una fattoria nei pressi di Modena. Morirà a 93 anni, nel 1988.


Lo storico evento del 25 luglio aveva finalmente messo fine al regime fascista, ma non aveva sfilato l’Italia dalla guerra contro gli anglo-americani, come sperato da Grandi. Altre tragedie sarebbero occorse alla nazione fino al termine del conflitto, a cominciare da quell’8 settembre (l’armistizio), di cui, sempre quest’anno, ricorre il settantesimo anniversario. Di quest’altra data, importante e tragica, della storia d’Italia scriverò a suo tempo. Intanto vorrei concludere quanto abbiamo visto in questi due post dedicati al 25 luglio e a Grandi. Il piano architettato da questi era realistico e irrealistico allo stesso tempo, come ha scritto De Felice. Era realistico dal punto di vista politico, poiché l’unico modo per evitare le conseguenze della “resa incondizionata” era quello di capovolgere la situazione, rompendo l’alleanza con la Germania e schierando un’Italia in armi dalla parte degli Alleati. Sono molti i documenti che attestano come vi fosse, sia da parte americana sia da parte inglese, non solo la volontà di applicare all’Italia il principio della resa con “una certa elasticità” (parole di Churchill), qualora il re avesse deciso di schierarsi con l’Alleanza; ma anche una certa aspettativa sul fatto che l’Italia fosse sul punto di compiere questo passo. Era un piano temerario, come riconobbe Churchill nel 1950 (cfr. R. De Felice, op. cit., pp. 1203-1204), ma il solo che “poteva essere tentato”.
Il Processo di Verona. Da sx: De Bono (con le mani sul viso), Pareschi, Ciano, Gottardi, Marinelli, Cianetti


Era irrealistico, invece, sul piano militare: con quali forze concrete operare quel capovolgimento? Era assurdo pensare che l’esercito fosse pronto a compiere questa pericolosa azione, “nello stato d’animo di scoramento e di stanchezza che ormai caratterizzava larga parte della truppa e ancor più degli ufficiali e dopo due anni e più di guerra bene o male combattuta al fianco dei tedeschi” (R. De Felice, op. cit., p. 1203). Che potesse venire dalla società stessa, dai civili una reazione orgogliosa e massiccia era altrettanto impensabile: la popolazione era stremata dalla guerra e soprattutto sbandata, lasciata a se stessa, senza guida politica alcuna. Non c’era un De Gaulle, in Italia, capace di mobilitare l’intera nazione, al di là delle appartenenze ideologiche, contro il fascismo. Di lì a qualche settimana, inoltre, la penisola sarebbe stata spaccata in due dalla doppia occupazione: i tedeschi al centro-nord, fino alla linea Gustav (Termoli-Gaeta); al sud di Cassino gli Alleati, che risalirono l’Italia con lentezza ed estrema fatica. A chi rivolgersi, allora, per realizzare il “piano temerario” anche dal punto di vista militare? Veniamo qui alla “piccola parte di verità” cui accennavo all’inizio del precedente post: la Resistenza. Essa sorse nel nord Italia solo dopo l’armistizio (8 settembre), non prima. Gli uomini che vi presero parte furono degli eroi, ai quali va tributato il massimo onore: essi decisero di immolarsi combattendo per la libertà della patria, sognando un mondo migliore e più giusto. Tuttavia furono pochi. Non un popolo in armi, non una rivoluzione civile capace di coinvolgere le masse, come accadde altrove (in Francia, in Jugoslavia, in Cina). Fu un movimento molto, molto minoritario il cui peso militare non era neppure determinabile nell’estate del 1943. Solo in seguito, verso la fine del 1944, sarebbe stato di un certo rilievo: ma mai in grado, da solo, di scacciare dall’intera penisola gli occupatori nazisti e i loro alleati della Rsi.


Questo è appunto il problematico avvio della nostra storia repubblicana: gli italiani, fino a qualche anno prima soggiogati dalla dittatura o convinti sostenitori di essa, nel turbine degli eventi del 1943 reagirono in massa con timore, rassegnazione, egoismo; molti si limitarono a non fare nulla, restarono alla finestra in attesa degli eventi, cercando di mettersi disperatamente in salvo (il “tutti a casa” di Alberto Sordi, ricordiamo?). Costituirono quella “lunga zona grigia” di cui parla De Felice nell’ultimo volume della sua opera, nonché nel libro intervista Rosso e nero (a cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini&Castoldi, 1995). Solo pochi, pochissimi presero una decisione coraggiosa: da un lato i partigiani (che si schierarono dalla parte giusta), dall’altra i volontari “repubblichini” (che scelsero la causa sbagliata, ma scelsero). Troppo pochi i primi per rendere pienamente realistico il piano di Grandi. Troppi i secondi per evitare la guerra civile: che infatti vi fu.


Resta da valutare la figura di Grandi. Un uomo dalle mille contraddizioni, non c’è dubbio. Ma ebbe la forza di pensare con la propria testa in un momento tragico per la nazione, un momento in cui quasi tutti gli altri attori importanti persero la testa o non la usarono con lucidità. Mancò a Grandi, semmai, la capacità (e forse anche la volontà) di tradurre il pensiero in azione: si mise in salvo, anche lui, quando avrebbe potuto impugnare le armi. Si comportò, insomma, come la maggioranza degli italiani. Peccato. come Mussolini a Feltre, Grandi mancò l’appuntamento con la svolta storica che, pure, egli stesso aveva contribuito a creare. (2-fine)

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