sabato 23 febbraio 2013

La rinuncia del Papa


La Chiesa e l’accettazione della fallibilità

Papa Ponziano
Clemente I


Papa Silverio
Le dimissioni del Papa non sono una novità assoluta. Ma in passato esse sono state dovute a circostanze eccezionali. Alle origini della storia della Chiesa, quando il potere del clero non incuteva timore a nessuno, Clemente I (92-97) e Ponziano (230-235) furono costretti a dimettersi perché arrestati o esiliati dall’autorità imperiale (Traiano nel primo caso, Massimino il Trace nel secondo). Silverio (536-537) fu vittima di un complotto ordito dall’imperatrice Teodora e da Antonina, la moglie di Belisario, che lo costrinsero alle dimissioni e favorirono l’elezione di Papa Vigilio. Benedetto IX divenne Papa nel 1032, a soli 21 anni (secondo alcune fonti addirittura a 11), fu dissoluto e corrotto, perciò venne cacciato da Roma nel 1044, perdendo il pontificato. Ritornò l’anno successivo e si riprese il soglio pontificio, per venderlo, sempre nel 1045, a Giovanni de’ Graziani che divenne Papa con il nome di Gregorio VI.

Benedetto IX
Celestino V

Celestino V (Pietro del Morrone, 1215-1296), il cui nome è stato ricordato spesso in questi giorni, fu Papa per soli 5 mesi (dal luglio al dicembre 1294), in un’epoca in cui il potere della Chiesa sembrava senza rivali. Nei decenni precedenti i Pontefici avevano sostenuto lo scontro con gli Svevi, sacro romano imperatori, e ne erano usciti vittoriosi. Avevano imposto un nuovo monarca nel Regno di Sicilia, Carlo d’Angiò, e avevano manovrato per imporre un debole Rodolfo d’Asburgo sul trono imperiale. Il partito ghibellino era stato sconfitto in tutte le città d’Italia, i suoi sostenitori erano esuli o morti; ovunque i governi comunali erano nelle mani dei guelfi, alleati della Chiesa. Fu forse questo enorme potere a spaventare il pio Pietro del Morrone che, un po’ per disgusto, un po’ per inettitudine politica, si mostrò impotente di fronte all’arroganza della nascente monarchia francese. Decise allora di ritirarsi, compiendo “per viltade il gran rifiuto” e meritandosi il biasimo dantesco (Inferno, c. III, v. 60).


Gregorio XII
Per quanto riguarda Gregorio XII (1406-1415), ultimo Papa dimissionario prima di quello attuale, la sua vicenda fu piuttosto complicata. Egli visse in un periodo terribile per la Chiesa, quello dello scisma d’Occidente (1378-1417) che fu originato da ragioni politiche, ovvero dal conflitto tra il clero romano e quello francese (o “avignonese”). Nel 1378 i due cleri avevano eletto ciascuno un proprio Papa: Urbano VI (1378-1389), scelto dal conclave romano, Clemente VII (1378-1394) voluto dai francesi durante il sinodo di Fondi. A Urbano succedettero poi Bonifacio IX (1389-1404), Innocenzo VII (1404-1406) e, appunto, Gregorio XII. Ad Avignone, intanto, a Clemente era succeduto Benedetto XIII (1394-1417). Nel 1409, quindi, i due Papi, Benedetto e Gregorio, cercarono una conciliazione per riunificare la Chiesa, ma peggiorarono le cose: i loro cardinali convocarono un concilio a Pisa per risolvere la controversia, ma il risultato fu che dall’incontro uscì un terzo Papa, Alessandro V. Quest’ultimo morì nel 1410 e venne sostituito da Giovanni XXIII (1410-1415). Fino al 1415, quindi, la Chiesa cattolica ebbe tre Papi: la storia canonica ritiene legittimo solo Gregorio XII, mentre considera “antipapi” Benedetto XIII, Alessandro V e Giovanni XXIII. Lo scisma ebbe termine con la convocazione del concilio di Costanza (1414-1417), dove Benedetto XIII e Giovanni XXIII furono deposti, mentre Gregorio XII si dimise per il bene della Chiesa, lasciando che il concilio eleggesse il pontefice della riunificazione: Martino V (1417-1431).

Martino V
Gregorio XII, insomma, è il Papa che si può accostare di più a Benedetto XVI, poiché si dimise spontaneamente, come il Papa attuale. Tuttavia è evidente a tutti che le circostanze che portarono alla rinuncia di Gregorio furono davvero eccezionali: tre Papi, uno scisma in corso, lo scontro politico tra cleri nazionali, la pressione della monarchia francese e dell’imperatore; sullo sfondo di queste torbide vicende, non si dimentichi, si stavano diffondendo eresie combattute dalla Chiesa (sia dai Papi che dagli Antipapi), ma che avrebbero di lì a qualche decennio spezzato di nuovo in due la cristianità, e questa volta in modo assai più profondo e motivato.

L'annuncio del Papa durante il concistoro dell'11 febbraio

Niente di tutto questo abbiamo oggi. Benedetto XVI, a quanto si sa, ha deciso di porre fine al suo ministero per ragioni personali: ragioni ponderate, legittime, comprensibili, ma personali. Non ha subito pressioni paragonabili a quelle del XV secolo, non vi sono antipapi sostenuti o avversati da potenti sovrani, né eresie che si profilano all’orizzonte. La decisione è stata presa serenamente e lucidamente, come il Pontefice ha dichiarato nell’annuncio, ormai storico, dell’11 febbraio scorso. “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino” (cfr. Corriere della sera online del 13 febbraio). Queste le parole pronunciate in latino da Benedetto XVI davanti al concistoro.

Se davvero non vi sono altre circostanze particolari, se nessuna pressione ha subito il Papa, allora siamo di fronte ad una decisione storica, di grande rilievo e, forse, di grandissima portata. Come ha spiegato lucidamente Galli della Loggia (Il seme fertile della rinuncia, in Corriere della sera, 13 febbraio 2013, p. 1) “le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un’oggettiva desacralizzazione della sua carica”. In altre parole, la rinuncia vuol dire che il Papa è fallibile, che età, logoramento delle forze fisiche ed esaurimento delle energie psicologiche hanno su quella funzione le stesse conseguenze che avrebbero su qualsiasi altra attività, o impiego, o incarico di responsabilità: anche il Papa è soggetto, come qualsiasi altro essere umano, alle leggi inesorabili del tempo e della carne, al deterioramento delle capacità che la fatica della vita impone ad ogni individuo. Se questo è vero, vuol dire che l’infallibilità della cattedra di Pietro non esiste più e che l’assolutezza del suo potere spirituale è finita per sempre. Le dimissioni di Bendetto XVI annunciano con coraggio al mondo che l’ultima monarchia assoluta della Terra è giunta al termine.


Se questo produrrà cambiamenti nel corpo e nella dottrina della Chiesa è presto per dirlo. Forse il gesto di Ratzinger susciterà reazioni altrettanto forti che si opporranno alla desacralizzazione della funzione pontificia. Forse le novità non sgorgheranno improvvise da questo gesto. Tuttavia, come spiegato dall’editoriale del Corriere che ho citato sopra, il segnale è inequivocabile: Benedetto XVI, con la sua rinuncia, ha lanciato una sfida alla Chiesa, chiedendo a tutti i suoi membri di cominciare a riflettere sul loro ruolo nel mondo contemporaneo, sull’insegnamento e sull’esempio che la Chiesa sta dando a questo mondo e su come possano entrambi essere emendati da errori, immoralità e anacronismi. Il momento che stiamo vivendo è difficile per tutti, non solo qui in Italia. La stessa Chiesa sta attraversando un delicato passaggio, erosa al suo interno da scandali, minacciata all’esterno da un’incontrollabile, pervasiva secolarizzazione dei valori. Il Pontefice sembra voler avvertire la Chiesa che, se vuole che il cattolicesimo continui ad avere influenza sulla coscienza degli uomini, deve accettare alcune riforme radicali, sia nella sua organizzazione interna, sia nella sua dottrina.

Pulizia profonda e vasta del comportamento del clero; lotta senza quartiere all’intreccio tra politica, alta finanza, Vaticano; riforma di alcune strutture interne alla Chiesa (a cominciare dal conclave); discussione aperta ai laici sulle questioni della vita e della bioetica; modifica o abolizione del celibato; revisione del secolare ostracismo al sacerdozio femminile; capacità di educare il credente a preferire l’etica della convinzione, piuttosto che la pura adesione esteriore. Queste sono solo alcune delle sfide che attendono la Chiesa nel prossimo futuro. Su esse si agitano le forze che spingono verso la secolarizzazione e la riduzione dei valori etici a pura scelta di comodo, forze che orientano le moltitudini verso comportamenti sempre più ostili alla Chiesa, sempre più lontani dalla religione, non solo da quella cattolica, percepita ormai da molti come un fardello inutile, come un’anacronistica e bizzarra moda del passato. Se non vorrà diventare irrilevante e priva di quella capacità di orientamento che per secoli ha avuto, la Chiesa dovrà affrontare prima o poi tali questioni. Quando lo farà, dovrà avere il coraggio di ammettere la propria fallibilità, come il gesto di Papa Ratzinger sembra volerle indicare.

lunedì 18 febbraio 2013

Il rifiuto di Grillo a farsi intervistare


La democrazia unidirezionale di Grillo


Il tweet con cui Grillo ha annunciato che l'intervista
non ci sarebbe più stata.
Grillo ha annullato la sua intervista a Sky Tg24 che, circa un paio di settimane fa, si era impegnato a fare. Due sono le considerazioni che deduco da questa decisione. La prima: un impegno preso davanti a tutti va mantenuto. Non è proprio questa mancanza di coerenza rispetto alle promesse fatte che viene imputata alla “casta” della vecchia politica? Comincia male l’avventura politica di un leader che rifiuta di farsi intervistare dopo aver dichiarato che l’avrebbe accettato. La seconda: Grillo non vuole sostenere confronti. Nonostante il gran parlare di diversità del suo movimento rispetto agli altri partiti, in realtà Grillo utilizza la vecchia arma impiegata dai partiti di massa fin da quando sono nati: la comunicazione unidirezionale.

Osserviamo gli strumenti attraverso i quali si è fatto conoscere e con i quali sta facendo propaganda: internet e le piazze. Sul suo blog non c’è dibattito, ma domina inarrestabile solo la sua voce; non vi sono garanzie di alcun tipo circa la veridicità dei commenti che vi arrivano; non si sa se essi siano filtrati o meno; non vi sono mai risposte dirette al profluvio di commenti che inonda quotidianamente il blog; le risposte sono sempre generali e generiche, mai pertinenti ad una singola richiesta. Nelle piazze questa unidirezionalità è addirittura più marcata: Grillo vi svolge il ruolo di “one man show”, non solo senza contraddittorio (come avviene in tutti i comizi), non solo sostenuto ed esaltato dalla folla in tripudio (come sempre accade durante i discorsi di leader di fronte a folle plaudenti), ma rafforzato da violente azioni di censura, come quella accaduta qualche giorno fa, quando il leader del M5S ha letteralmente cacciato dalla piazza dello “Tsunami tour” il cameraman di Rai 3 (vedere qui).


Sul suo blog la spiegazione del rifiuto di recarsi in televisione è affidata ad un video (vedilo qui) di poco più di un minuto, in cui scorrono immagini di politici intervistati, mentre in sovraimpressione compare un breve testo che dice perentorio: “Ci sono due modi per fare campagna elettorale. Il primo serviti e riveriti nei salotti tv, magari con trasmissioni ‘cucite addosso’. Noi preferiamo il secondo: nelle piazze, tra la gente. Perché la politica è delle persone. Per questo il 24 e 25 febbraio votate per Voi MoVimento 5 stelle”. Il testo termina minaccioso così: “Ci vediamo in Parlamento, sarà un piacere”. Sul blog di Grillo il video è stato commentato, a tutt’oggi, da oltre 500 persone e ha ricevuto quasi 8 mila “mi piace”. I commenti (vedere qui) sono in massima parte di sostegno e condivisione della scelta di Grillo di non farsi intervistare; molti, pur dicendosi delusi e pur chiedendo spiegazioni al leader per questa decisione, dichiarano che comunque non gli toglieranno il voto; una ristretta minoranza protesta e annuncia di togliere il proprio sostegno. Ma a nessuno dei commentatori Grillo o Casaleggio si degnano di rispondere. I commentatori si accapigliano tra di loro, si offendono vicendevolmente, ma nessuno di loro ha ricevuto una risposta. Che democrazia sarebbe questa? Lasciare che il pubblico si scanni dietro ogni affermazione del leader, come se fosse un oracolo i cui vaticini vanno accettati così come sono, in modo da diffondere l’illusione di una partecipazione attiva? La democrazia “grillesca” ricorda le maggioranze “bulgare” dei regimi dell’Europa orientale, quando le più efferate decisioni dei dittatori che imperavano colà erano presentate come “la volontà delle masse”.

A destare più impressione, infine, è il linguaggio utilizzato in alcuni di questi commenti dai più infiammati fan di Grillo. Una certa “Agnese” ha postato queste parole, a difesa del rifiuto di Grillo di farsi intervistare: “la rivoluzione ci sarà. Se non il prossimo fine settimana, sarà tra un mese, o tra un anno, ma ci sarà. Come tutte le rivoluzioni si porterà dietro una coda di durezze, ricordiamoci del terrore in Francia, delle guardie della rivoluzione in Iran, delle riprogrammazioni in Cina. Ricordiamoci anche di Komarovsky (Pasternak) che faceva affari con lo zar prima e con i comunisti dopo. In poche parole: i vincitori portano con loro tutte le buone ragioni e sempre cercano vendetta sui vecchi tiranni ed i loro leccapiedi. I furbi galleggiano sempre e gli affari prosperano comunque. I ‘talebani’, in buona fede o no, rischiano sempre l'estremismo e spesso diventano più ingiusti di coloro che hanno spodestato. Dunque, se sarà rivoluzione, che sia pura, non lasciamo spazio ai cretini, ai furbi ed ai travestiti”.
Grillo Danton?...

Un commento davvero lugubre: per questa grillina dopo le elezioni, e dopo il prevedibile successo del M5S, dovrà essere scatenato il Terrore come nella Francia di Robespierre e Danton; gli stadi dovranno essere riempiti di oppositori da trucidare, come accadde in Iran dopo il 1979, o nell’Afghanistan dei talebani; i “leccapiedi” dovranno essere processati per direttissima, senza avere diritto alla difesa; la rivoluzione grillesca sarà crudele, ma ciò, secondo la commentatrice, è accettabile, perché essa porterà Giustizia, sarà levatrice di Verità, farà trionfare il Bene.

...o talebano?
A far da eco a queste parole proprio ieri sera, durante la trasmissione In onda diretta su La7 da Luca Telese e Nicola Porro, ho letto un tweet di un sostenitore di Grillo: la trasmissione era dedicata proprio al rifiuto di Grillo di andare su Sky (titolo: Grillo, ve la do io la tv!); ne discutevano, insieme ai due suddetti giornalisti, Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni, ospiti in studio. In particolare Ferrara si è scagliato contro Grillo, affermando che il leader del M5S non vuole comparire in tv perché sarebbe incapace di rispondere a domande sul suo fumoso e velleitario programma. Ebbene, un ascoltatore, evidentemente fan di Grillo, ha così commentato in uno dei tweet che scorrevano in basso durante la trasmissione: “la nostra presenza in Parlamento sarà una bomba! Che ci frega dei programmi?”.

Dopo le elezioni temo che il Parlamento risulterà frantumato, se non addirittura ingovernabile. Stando alle previsioni, potrebbe risultare diviso tra un 25-28% del centro-destra, un 35-38 % del centro-sinistra e un 15% circa dei “montiani” (vedi ad esempio qui uno degli ultimi sondaggi). In questa situazione, la presenza del MoVimento5Stelle potrebbe essere davvero una bomba politica, perché potrebbe ottenere tra il 15 e il 20% dei suffragi. Teniamo presente che ciascuna coalizione è ulteriormente frantumata al suo interno: ogni schieramento è formato almeno da 2-3 partiti o movimenti, non perfettamente allineati con le dichiarazioni dei leader circa le possibili future alleanze di governo. Come farà Bersani, dato per vincitore, a conciliare Vendola con Monti? E lo stesso Berlusconi, nell’ipotesi (speriamo solo fantasiosa) di una sua vittoria, come terrà insieme l’alleanza con una Lega che si è già pronunciata contro il condono tombale? A chi chiederà l’appoggio per governare?

L’ingovernabilità è insomma un esito possibile. Ma oltre a questo, dobbiamo temere anche la guerra civile? Stando alle sparate dei grillini più facinorosi si direbbe di sì. Certo, si tratta di affermazioni all’italiana, e si sa che gli italiani, quando si mettono in politica, sono spesso dei tromboni. Ma in passato sono stati proprio i tromboni a produrre le più spaventose catastrofi nazionali: tra 1922 e 1943 l’Italia ha avuto uno spaccone al governo, sostenuto, prima ancora che dagli agrari dell’Emilia-Romagna, da teste calde e tromboni come i fan di Grillo che ho citato sopra. Nel momento in cui andremo a votare, tra qualche giorno, sarà bene non sottovalutare il fenomeno del MoVimento5Stelle, e ricordarsi della democrazia unidirezionale di Grillo. Meglio avere oggi un po’ di sano timore per le “trombonate” sparate da certi leader e dai loro sostenitori, che trovarsi domani a pentirsi del proprio voto.