martedì 26 febbraio 2013

Elezioni, errori e populismi


Gli errori del giaguaro. I populismi alla prova dei fatti




Ora possiamo dirlo: il PD ha perso le elezioni per colpa sua. Che le abbia perse l’ha affermato lo stesso Bersani: “è chiaro – ha detto il leader PD nella conferenza stampa di oggi pomeriggio – che chi non riesce a garantire governabilità non può dire di aver vinto. Non abbiamo vinto anche se siamo arrivati primi, questa è la nostra delusione” (vedere Corriere della sera online del 26 febbraio 2013). L’ammissione di Bersani è stata sensata e coraggiosa: ogni altra affermazione sarebbe suonata fuori luogo e contro la realtà dei fatti.

Elisabetta Gualmini

Detto questo, però, la colpa del PD è evidente. L’ha spiegato bene ieri sera, durante la trasmissione Otto e Mezzo su La7, Elisabetta Gualmini, Presidente dell’Istituto Cattaneo (che da anni studia i flussi elettorali in Italia) e co-autrice, insieme a Piergiorgio Corbetta, dell’interessante volume Il Partito di Grillo (Il Mulino, Bologna 2013). La Gualmini ha detto che il PD, presentando come candidato Bersani, ha effettuato una scelta di apparato, ha preferito inseguire una “logica di recinto”, ovvero un obiettivo “identitario” che ribadisse l’appartenenza alla sinistra del Partito e dei suoi candidati. Condivido completamente l’analisi della studiosa. Aggiungo ad essa che dovrebbe essere ormai evidente che questa scelta non paga: con un uomo di apparato ed effettuando scelte che servono a ribadire l’identità tradizionale della sinistra, il PD non andrà mai oltre il 30% e, mano a mano che si assottiglierà il cosiddetto “zoccolo duro” dei suoi elettori, tale percentuale si ridurrà ulteriormente.

Matteo Renzi
Una scelta alternativa, e nuova, sarebbe stata la candidatura di Matteo Renzi, che, come ho scritto a suo tempo (post del 26/11/2012), avrebbe potuto ottenere il consenso del ceto medio deluso dalla politica della destra. Ma le primarie non sono state favorevoli al sindaco di Firenze: le regole scelte per quelle votazioni, com’è noto, sono state applicate in modo da ostacolare il giovane leader, e per favorire il gruppo dirigente del partito. Perciò, vuoi per il conservatorismo del popolo di sinistra, vuoi per il fuoco di sbarramento delle regole imposte dalla dirigenza, il PD si è autocondannato alla sconfitta.

Il ceto medio moderato non ha creduto alla volontà di rinnovamento del PD, non si è fidato della sua politica fiscale ed economica, né dell’alleanza con Vendola. Il ceto medio moderato vuole sì una politica di contrasto all’evasione fiscale, purché non si traduca in vessazioni tributarie per il piccolo contribuente, purché, soprattutto, essa sia contestuale ad una significativa riduzione delle tasse. Inoltre non è disposto ad introdurre nuovi diritti se prima non si danno garanzie per il godimento di quelli già esistenti e oggi difficilmente praticabili: la certezza del lavoro, la sicurezza del reddito, il valore del merito, la garanzia dell’ordine. Su questi temi la sinistra del PD-SEL non ha saputo dare alcuna risposta convincente. Perché il ceto medio moderato possa fidarsi del PD, dovrebbe percepirne la sua collocazione nel centro-sinistra; le parole d’ordine evocate, i temi sollevati e soprattutto gli uomini simbolo hanno invece comunicato del PD un’immagine di sinistra senza centro. Il risultato di queste scelte è oggi sotto gli occhi di tutti: l’Italia è stata consegnata a due populismi, quello di Berlusconi, quello di Grillo.


Che cosa accadrà ora? Vedo solo due probabili scenari. O il PD si apre ad un’alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle, o si va di nuovo a votare entro pochissimi mesi. C’è anche un terzo scenario, forse meno probabile ma pur sempre possibile: che si crei una “grande coalizione” comprendente PD, Monti, PDL (e forse M5S) finalizzata solo a varare una riforma elettorale seria, per poi tornare ugualmente alle urne. Credo sia da escludere una maggioranza PD-PDL; e anche se venisse messa in piedi, come ha detto lo stesso Grillo (che in questo caso ha ragione), non durerebbe a lungo. L’esito sarebbe comunque una nuova tornata elettorale.

Quindi, se un governo si farà esso dovrebbe comprendere il Movimento 5 Stelle. Per i “grillini” è insomma arrivato il momento di mostrare di che pasta sono fatti: sono loro ad avere più da perdere in questo frangente. Potrebbero rifiutarsi di entrare in una maggioranza, sicché si assumerebbero la responsabilità di ritornare al voto, rischiando a quel punto serie spaccature all’interno del movimento. Se invece collaboreranno, dovranno accettare le regole della democrazia rappresentativa e il parlamentarismo, negando in tal modo uno dei loro assunti ideologici più radicati: la democrazia diretta realizzata attraverso il web. Anche in questo caso rischierebbero serie fratture all’interno del movimento. Quel che è certo è che non potranno fare quel che essi stanno dichiarando in queste ore, ovvero decidere come comportarsi di volta in volta, valutando un provvedimento alla volta: i provvedimenti, infatti, potranno esserci solo dopo la formazione di una maggioranza, e quest’ultima si formerà solo se essi accetteranno di allearsi con il PD. Tertium non datur.

Probabilmente il risultato ottenuto dal M5S ha sorpreso gli stessi leader del movimento; forse il loro successo li preoccupa persino. Essi erano pronti ad usare un manipolo di qualche decina di deputati per svolgere la funzione di pungolo nei confronti di una maggioranza, di destra o di sinistra. Non lo erano per entrare essi stessi in questa, non lo erano per svolgere il ruolo di ago della bilancia, di forza decisiva per la formazione di un governo: non in questa legislatura, almeno; forse in una prossima, dopo aver effettuato un’adeguata esperienza come forza di opposizione, ma non ora, alla loro prima uscita politica nazionale. È possibile, insomma, che essi siano disorientati e intimoriti dal loro incredibile exploit. E si trovano, indubbiamente, in una scomoda posizione.

Gianroberto Casaleggio, il guru-pubblicitario
che sta dietro il M5S
Se accetteranno di entrare de facto nella odiata “casta”, alleandosi con uno dei suoi più rappresentativi partiti, non solo non potranno più affermare di voler mandare “tutti a casa”, ma dovranno misurarsi con i problemi reali, dovranno verificare se le loro proposte sono realizzabili o se erano soltanto “sparate” populiste; e se non potranno realizzare i loro progetti dovranno sobbarcarsi l’onore di spiegarlo ai loro entusiastici elettori. Ad esempio, se entreranno nella maggioranza di governo con il PD, potranno continuare a sostenere di voler effettuare un referendum sull’euro? Potranno continuare ad affermare di voler elargire un reddito di cittadinanza di 1000 euro a tutti i disoccupati? Potranno continuare ad opporsi al progetto TAV? Il populismo di simili proposte (definite “folli” da alcuni osservatori, ad esempio da Tito Boeri, sempre ieri sera su La7: vedi lavoce.info) è ora alla prova dei fatti, e forse questo non lo aveva previsto neppure Casaleggio.

Il M5S ha eroso voti a tutti i partiti. Ma in modo particolare, credo, al centro-destra. Non dimentichiamo che il PDL e la Lega nel 2008 ottennero alla Camera oltre il 46% dei voti e oltre il 47 al Senato (vedere qui). Oggi il centro-destra ha superato di poco il 29% alla Camera e il 30% al Senato. Ha perso il 17% dei voti. In particolare la Lega ha subito un dimezzamento dei suffragi rispetto al 2008. Certo anche il centro-sinistra si è ridotto: tra i 6 e gli 8 punti di percentuale. Ma la vera emorragia è stata subita dal centro-destra, perdita che poteva anche essere maggiore se il centro-sinistra avesse approfittato dell’impopolarità che circa un anno fa (solo 12 mesi fa!) gravava sulla Lega e su Berlusconi, travolti da scandali, immoralità, processi. La bravura del Cavaliere è consistita nel saper tamponare l’emorragia e avviare un clamoroso recupero. Ma dove è finito quel 17% che non è riuscito a trattenere? Una parte, probabilmente, non ha votato; ma sono molti, credo, quelli che all’ultimo istante hanno deciso di seguire il pifferaio magico Grillo. Per protesta, per odio verso la sinistra, oppure per cinismo. Ora è nelle mani di costoro il futuro della nostra nazione.