venerdì 29 marzo 2013

La democrazia diretta è un bene?


Prima parte: La democrazia può essere totalitaria

Il Quarto Stato, dipinto
di Giuseppe Pellizza da Vopedo (1868-1907)

Anni fa, in un bel saggio più volte ripubblicato (Democrazia cos’è, Rizzoli, Milano 1994) Giovanni Sartori scrisse che “se definire la democrazia è spiegare che cosa vuol dire il vocabolo, il problema è presto risolto […]. La parola significa, alla lettera, potere (kratos) del popolo (demos)”. Ma, proseguiva il costituzionalista, “così abbiamo risolto un problema verbale: si è soltanto spiegato un nome. Il problema di definire la democrazia è assai più complesso. Il termine democrazia sta per qualcosa. Che cosa? Che la parola democrazia abbia un preciso significato letterale o etimologico non ci aiuta affatto a capire quale realtà vi corrisponda e come sono costruite e funzionano le democrazie possibili. Non ci aiuta perché tra la parola e il suo referente, tra il nome e la cosa, il passo è lunghissimo” (op. cit., p. 11).
 
Giovanni Sartori
Non ci aiuta, ad esempio, a capire cos’è il popolo. Si chiede Sartori: “il popolo è un singolare o un plurale?” Nelle lingue francese, tedesca, italiana si dice “il popolo è”; nelle lingue anglosassoni si usa il plurale: “people are”. Detto al singolare, il concetto di popolo identifica una “totalità organica”, un’unica volontà generale, un ente solido e indifferenziato, nel quale non si ravvisano diversità. Detto al plurale, invece, denota un aggregato di individualità, una molteplicità in cui le volontà non sono identiche ma differenziate ed anche in conflitto. In un sistema che si dice democratico, se a decidere è una totalità organica - ovvero un’istituzione o un uomo che la rappresenta, che ne costituisce la voce (o il “megafono”, come oggi qualcuno ama dire) - allora è inevitabile che eventuali dissensi non solo non verrebbero tutelati, ma molto probabilmente sarebbero schiacciati. Le minoranze sarebbero prive di libertà, perché considerate non solo “diverse” rispetto alla maggioranza, ma addirittura non appartenenti al popolo, estranee alla comunità, quindi pericolose per l’integrità di questa: insomma, minoranze criminali da punire. In questo tipo di democrazia, persino chi è parte della comunità sarebbe libero solo se rimanesse dentro essa, ovvero solo se continuasse ad essere nella maggioranza assoluta: se dovesse cambiare parere, magari perché si è accorto che chi esegue il “volere del popolo” è un despota, sarebbe anche lui privato della libertà di dissentire, poiché diventerebbe parte della minoranza criminale e rischierebbe per questo la censura e la punizione. Eppure c’è vera libertà solo se si ha la possibilità di cambiare opinione. Negando questa possibilità, il governo di popolo, inteso come potere basato su una comunità organica, degenera fatalmente verso il totalitarismo.



Se il governo del popolo, quindi, è majority rule, se segue cioè il principio maggioritario assoluto (ovvero: la maggioranza decide e non lascia spazio a pareri diversi, considerati come “criminali”), rischia di essere totalitario e liberticida. Non a caso i regimi totalitari del XX secolo erano antiliberali, non antidemocratici. Ma sopprimendo la possibilità del dissenso, questa forma di democrazia assoluta mette in discussione anche il principio della sovranità popolare, poiché, come dicevo, a nessun membro del popolo sarebbe concesso di cambiare parere: in una democrazia totalitaria, al popolo è chiesto di esprimersi solo nel momento della instaurazione del governo, una volta sola per tutte, poiché ogni altro parere e ogni altra opinione verrebbero a configurarsi come tradimento di quel mandato iniziale. Per questo nei governi autoritari (e nei partiti monocratici) le consultazioni elettorali non ci sono mai, o, se ci sono, hanno l’aspetto di un plebiscito che ratifica decisioni già prese, senza rispetto per procedure e regole giuridiche. Allo stesso modo l’uso del web senza vere regole di trasparenza, ovvero senza possibilità di controllo sul numero dei partecipanti al voto e sulle procedure di scrutinio di questo, diventa strumento liberticida: democratico sì, ma nel senso della democrazia totalitaria.


Per salvarsi dal totalitarismo, la democrazia, dice Sartori, dovrebbe seguire il principio maggioritario temperato, ovvero: i più decidono nel rispetto delle minoranze, tutelandone il diritto a dissentire, lasciando che esse possano spiegare al popolo le ragioni del proprio dissenso. In questo modo si unirebbe la democrazia alla libertà, affermando il diritto del popolo a governare “nei limiti” del rispetto delle minoranze. Questi limiti sono ben indicati, ad esempio, nella nostra carta costituzionale la quale, nell’articolo 1, afferma sì la sovranità popolare ma sancendo, subito dopo, che il popolo “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sartori ricorda a questo punto le parole di Lord Acton, contenute negli Essays on Freedom and Power: “La prova più sicura per giudicare se un paese è veramente libero è il quantum di sicurezza di cui godono le minoranze” (citato in G. Sartori, op. cit., p. 24).
 
Lord Acton (1834-1902)
Un ragionamento analogo elabora Gustavo Zagrebelsky, noto giurista italiano, giudice della Corte Costituzionale dal 1995 al 2004, in un libriccino intitolato Imparare democrazia (Einaudi scuola-Mondadori education, Milano 2011). Egli indica in dieci punti quei “contenuti minimi necessari” che ogni educazione alla cittadinanza dovrebbe perseguire se vuole costruire un ethos democratico.
 
Gustavo Zagrebelsky
Tra essi vi è la fede nella democrazia, consistente nel “rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono”, e nel rispetto “dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative” (p. 19). Vi è poi “la cura delle personalità individuali”, poiché “la democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa”, perciò “una democrazia senza qualità individuali apre la strada ai demagoghi; i regimi totalitari, a loro volta, hanno bisogno, per così dire, di uomini-massa, non di uomini-individui” (pp. 22-23). È poi necessario sviluppare lo “spirito del dialogo”, poiché “democrazia è discussione, ragionare insieme”. Serve quindi lo “spirito di uguaglianza” o, meglio, l’isonomia, ovvero l’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge (p. 26). Poi vi è “l’apertura verso chi porta identità diverse” (p. 28), poiché la democrazia, osserva Zagrebelsky, “è relativistica, non assolutistica” (p. 19). Occorre quindi “la diffidenza verso le decisioni irrimediabili”, poiché “la democrazia implica la reversibilità di ogni decisione” (p. 30), eccezion fatta per la democrazia medesima. Ne consegue, come settimo contenuto, “l’atteggiamento sperimentale”, poiché la democrazia è sì “orientata da principi, ma deve imparare quotidianamente anche dalle conseguenze delle proprie azioni” (p. 31). Non è così per i regimi dispotici, per i quali verità e menzogna, bene e male sono realtà assolute date una volta per tutte: “la verità assoluta, infatti, non teme le conseguenze. Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus”, recita la frase latina cui si ispira il fideismo delle tirannie (p. 31).

Saltiamo per un attimo l’ottavo contenuto. Il nono afferma la necessità di avere un “atteggiamento altruistico”, poiché “la democrazia è la forma di vita comune di esseri umani solidali tra loro” (p. 34). Il decimo, infine, stabilisce l’importanza della “cura delle parole”: “essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di una cura particolare, come non si riscontra in nessuna altra forma di governo. Cura duplice: in quanto numero e in quanto qualità” (p. 35).
 
Da: aldoricci.wordpress.com
Torniamo ora al contenuto ottavo che avevo saltato. Zagrebelsky lo definisce così: “coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza” (p. 32). In democrazia “non esiste nessuna ragione per sostenere, in generale, che i più vedano meglio, siano più vicini alla verità dei meno”. Nulla prova che “nel molto ci sia il tutto” (ibidem). Perciò la massima vox populi, vox dei “è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi”. Essa è solo apparentemente una massima democratica, poiché in realtà “nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più” (p. 33).

Evidenti qui le analogie con il pensiero di Sartori. In “ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza” – continua Zagrebelsky - non vi è mai “una vittoria della prima e una sconfitta della seconda”. Vi è invece “una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità  della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond’è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa), chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possono essere accampate” (pp. 33-34).
 
Web democracy?
Pagmatismo, reversibilità e provvisorietà delle decisioni, rispetto delle opinioni altrui, cura delle parole che si usano, rifiuto di ogni fideismo totalitario. Come si concilia tutto ciò con la convinzione, da molti sostenuta in questi ultimi tempi, che l’intera comunità dei cittadini dovrebbe coincidere con il governo, senza mediazioni e senza eccezioni? Come può un “tutto” (la comunità intera) preservare la libertà delle minoranze se crede di essere solo essa la depositaria del “vero”, se crede di non avere bisogno dei “molti” e dei “diversi” in opposizione al tutto? (1 – continua)