Terza parte: Critica
della “web democracy” referendaria
Secondo Sartori, come nel
caso della parola democrazia anche in quello del concetto di autogoverno è
facile arrivare ad una definizione astratta. Esso indica la capacità di
“governare se stessi da sé” (G. Sartori, Democrazia
cos’è, cit., p. 50). Tale forma di governo sarà quindi tanto più efficace
ed intensa quanto meno esteso, in senso spaziale, è l’ambito del suo esercizio.
L’intensità sarà massima, ad esempio, quando l’autogoverno si esercita su
stessi come singoli individui; va degradando mano a mano che lo si esercita su
più soggetti distribuiti in un ampio spazio; diventa minima quando l’estensione
dei soggetti e dello spazio che essi occupano è massima. Anche l’estensione
temporale non va sottovalutata: massime sono l’efficacia e l’intensità
dell’autogoverno quando la sua durata è breve e carica dell’entusiasmo della
novità o della drammaticità del momento (come nei momenti di tensione bellica o
rivoluzionaria); minime mano a mano che ci si allontana dall’istante iniziale
della costituzione dell’autogoverno, e questo comincia a diventare routine (ivi, pp. 50-52).
L’autogoverno non coincide necessariamente
con la democrazia diretta. Quest’ultima, spiega Sartori, vuol dire “democrazia
senza rappresentanti e senza rappresentanza”. Inoltre la democrazia diretta implica
“anche immediatezza di interazioni,
un rapporto diretto, faccia a faccia, o quasi, tra partecipanti (veri)” (ivi,
p. 83). Ora, queste due caratteristiche danno luogo all’autogoverno quando le
dimensioni dei gruppi che lo esercitano sono relativamente modeste: si può
avere in un’assemblea, ad esempio, costituita da poche centinaia di persone;
probabilmente nel demos delle città-stato
greche, formato da “qualche migliaio di cittadini radunati in piazza” (ibidem). In questi esempi vi è
“interazione” tra i componenti dei gruppi, poiché essi si vedono, gli uni osservano
gli altri, ciascuno può parlare con gli altri. Si tratta di casi, insomma, nei
quali è possibile, per quanto difficile, che i singoli discutano, affermino
opinioni, o magari le cambino ascoltando gli argomenti degli altri. Ma se
l’interazione non c’è, a causa dell’estensione del gruppo che tenta di
autogovernarsi senza rappresentanti, allora viene meno “la democrazia illuminata
dalla discussione che precede la decisione” e, con essa, cessa l’autogoverno.
Rimane la democrazia diretta (ovvero democrazia senza rappresentanza, come si è
detto), ma essendo esercitata da/su gruppi molto estesi (decine, centinaia di
migliaia o milioni di individui) essa tende a diventare, come già spiegato nei
due precedenti post, una tirannia. Democrazia senza discussione, senza
mediazioni, senza possibilità di rappresentare differenze e minoranze, vale la
pena ripeterlo, è uguale a dittatura.
Il rilievo più frequente a
questo ragionamento, rilievo che in questi ultimi anni è stato utilizzato dai
sostenitori della web democracy, è
che le tecnologie odierne consentirebbero di superare la difficoltà costituita
dal numero, garantendo due aspetti della democrazia diretta-autogovernante:
l’interazione tra i singoli (quindi la discussione “illuminata” sarebbe salva);
la partecipazione continua dei cittadini alle decisioni da prendere, attraverso
il meccanismo del “referendum quotidiano”. Anche ammettendo che la discussione
sia garantita e avvenga con trasparenza e correttezza (questione su cui tornerò
poi), ciò che appare discutibile è proprio il meccanismo referendario. Seguiamo
ancora il ragionamento di Sartori.
Indipendentemente dal
sistema istituzionale adottato, quando si prende una decisione politica si
possono avere “decisioni a somma positiva”, “a somma nulla” e “a somma
negativa” (ivi, pp. 84-85). Si ha la prima quando tutti gli interessati dalla
decisione ne sono avvantaggiati: tutti guadagnano qualcosa, o sono comunque
soddisfatti per la decisione presa. Si ha la somma nulla quando chi vince,
vince tutto, e chi perde, perde tutto. In questo caso “la vincita corrisponde
esattamente alla perdita: io vinco quel che l’altro perde” (ivi, p. 85). Si ha
decisione a somma negativa, infine, quando tutti ne vengono danneggiati o quando
tutti perdono.
Il referendum è un
meccanismo decisionale a somma nulla: “ogni volta si approva o respinge una
proposta prefissata, e ogni volta ne esce un gruppo vincitore e un gruppo
sconfitto. Divorzio sì o divorzio no; nucleare sì o nucleare no; e così via.
[…] se tutto (o il più) va in decisione referendaria, è il sistema nel suo
complesso che diventa a somma nulla […]” (ibidem).
Si potrebbe obiettare che anche nelle elezioni dei parlamenti avviene la stessa
cosa: o il mio voto elegge un rappresentante, o va perduto. Sì, è vero, risponde
Sartori, ma nella democrazia rappresentativa non si esaurisce ogni decisione
nel momento del voto con cui si eleggono i rappresentanti, poiché questi, una
volta eletti, “si parlano, discutono, negoziano, ‘scambiano’ concessioni reciproche,
e sono pertanto in condizione di concordare soluzioni a somma positiva (per i
loro rappresentati)” (ibidem). Nella
democrazia referendaria, invece, ogni decisione è isolata, non c’è negoziato su
di essa, non c’è modo di mediarla o di correggerla, o di integrarla con altre
proposte. E, una volta presa, le altre proposte, sconfitte, escono dal novero
delle decisioni possibili.
Veniamo ora al punto della
trasparenza e della correttezza della discussione. Anche ammettendo che si
riesca a far precedere ogni decisione da una discussione in chat, o attraverso
i commenti di un blog, chi è che effettua la sintesi di essa, confezionando una
proposta conclusiva? Chi gli ha affidato questo ruolo? Si tratta di un
rappresentante eletto? Perché, allora, eleggerne uno solo? Che meriti ha
rispetto ad altri per avere il potere di stabilire le agende dei quesiti da
proporre? Poiché è chiaro che costui avrebbe un potere immenso: non solo di
selezionare le proposte su un certo argomento, ma anche di dare priorità agli
argomenti da sottoporre a referendum e, infine, di formulare le domande su di
essi. Ed è noto che “una stessa domanda, a seconda di come viene formulata,
facilmente oscilla nelle risposte di un 20 per cento: così un 60 per cento
approva il diritto alla vita, ma poi uno stesso 60 per cento approva il suo
contrario, e cioè il diritto all’aborto (il che significa che un 20 per cento
si è impasticciato nel rispondere)” (ivi, p. 86). “Insomma, - conclude Sartori
– la democrazia referendaria centuplica i rischi di manipolazione e di
imbroglio del demos ben al di là di
quanto già riesca al demagogo di cui abbiamo esperienza” (ibidem). Ancora più elevato è tale rischio se il
moderatore-selezionatore del dibattito via web non è noto, non si sa come e
perché operi, non agisce alla luce del sole, bensì nel chiuso di una stanza
davanti ad un computer-server che può manovrare come meglio crede.
Ma non sono finiti qui i
problemi della democrazia diretta referendaria. È importante anche comprendere
le possibili conseguenze e le implicazioni di un sistema decisionale a somma
nulla. La prima, continua Sartori, è che “la somma nulla tende a aggravare i
conflitti: se chi perde, perde tutto, allora la sconfitta è cocente; e se la
cosa si ripete giorno per giorno può diventare intollerabile” (ibidem). La seconda, connessa alla prima
(e già discussa nei miei post precedenti) è che “la democrazia referendaria
instaura, di fatto, un principio maggioritario assoluto che viola il principio
(fondamentalissimo) del rispetto della minoranza” (ibidem). Come ho già spiegato, il principio del rispetto delle
minoranze è calpestato laddove le decisioni siano prese in base al diritto
della maggioranza di prendersi tutto. Terza implicazione, “il problema della pubblica
opinione è tutto da riproporre” (ibidem),
poiché in una democrazia referendaria è di vitale importanza non solo che l’opinione
del pubblico sia bene informata sulla questione su cui è chiamata a deliberare,
ma soprattutto che sia un’opinione di qualità. Scrive a questo proposito
Sartori: “chi decide da sé – non per sé, si badi, ma per tutti – deve sapere su
cosa decide, e deve anche padroneggiare il problema sul quale decide. […] Al
cospetto della democrazia referendaria non possiamo più fingere che
l’informazione sia competenza” (ivi, p. 87). Mentre in una democrazia
rappresentativa è sufficiente che vi sia “un’opinione” per esprimere il proprio
voto (ricordiamo che in filosofia l’opinione – doxa – è l’opposto di scienza – epistéme),
in una democrazia referendaria, dove ogni voto richiesto è relativo sempre a
questioni complesse, non è più sufficiente avere “un’opinione”, ma occorre
avere padronanza scientifica delle questioni per cui si decide, o per lo meno
“cognizione di causa”. Anche se si avesse il modo e il tempo di leggere
un’intera enciclopedia sul problema sul quale dobbiamo esprimerci, non è detto
che questo basti: riusciremmo, poi, a mettere a frutto un simile “arsenale di
nozioni”, come dice Sartori, per decidere come votare?
Qualcuno obietterà che
l’epoca attuale ha strumenti potenti di comunicazione, tali da trasformare le
nostre società in altrettante comunità della conoscenza. Gli apologeti di
internet, com’è noto, sostengono proprio questo (ad esempio James Surowiecki, che
ho citato nel post del 28 agosto 2012). Anche ammettendo che essi abbiano un
po’ di ragione (e non ne hanno affatto), cosa significherebbe ai fini del
nostro problema? Che ogni cittadino, grazie ad internet, saprà valutare quale
politica estera convenga adottare nei confronti della Corea del Nord? Che ogni
cittadino saprà comprendere un bilancio dello Stato? Che ogni cittadino saprà
cosa devono contenere i programmi di insegnamento delle scuole medie? Quante
competenze dovrebbe avere ogni cittadino? Dovrebbe essere fiscalista,
pedagogista, economista, esperto di bioetica e di strategia militare, nonché
sociologo, medico e ingegnere… Tutto ciò in un mondo sempre più interdipendente
(proprio a causa di internet) nel quale le decisioni diventano sempre più
complesse anche per gli “esperti”. È ovvio che il cittadino medio non potrebbe
far fronte a questa richiesta di “cultura della complessità” che la democrazia
referendaria pretenderebbe, perciò dovrebbe decidere su questioni complicate affidandosi
a “quel che si dice” in rete, ed illudendosi che la propria inesperienza e/o
ignoranza del problema sia una virtù, mentre, al contrario, la sua dipendenza
da internet (o dalla televisione) lo esporrebbe ad ogni sorta di manipolazione.
Per questo Sartori chiude il suo ragionamento così: “Dio ci salvi, allora,
dagli inesperti che ci propongono il governo diretto dall’inesperto trionfante,
dal cittadino premi-bottone” (ivi, p. 88). Queste parole sono state scritte
all’inizio degli anni Novanta; oggi esse, alla luce di quanto sta accadendo in
Italia, sembrano risuonare come una profezia.
Prevengo ancora
un’obiezione: anche il politico eletto in Parlamento non ha competenze
specifiche, anche lui non è un medico e contemporaneamente un sociologo. Vero,
ma nel suo partito ha le risorse che gli servono per poter decidere: ha una o
più persone che hanno studiato il problema, che ne hanno a lungo discusso con
gli esperti, che hanno riferito le loro conclusioni e, quindi, possono
consegnare al politico rappresentante una competenza sulla questione su cui
sarà chiamato a decidere. Tutto ciò ha richiesto tempo, studio, confronto,
risorse: come può un singolo cittadino diventare competente nello stesso modo,
tenuto conto che le questioni sulle quali dovrebbe decidere possono essere
decine e decine ogni mese? Dovrebbe smettere di lavorare e trasformarsi in un
“politico di professione”, cioè proprio in quella figura che gli apologeti
della democrazia diretta dipingono come esecrabile e, quindi, da eliminare
dalla politica.
Autogoverno, democrazia
diretta, web democracy. Dietro
ciascuna di queste parole si intravedono zone d’ombra assai pericolose, rischi
seri per la libertà di espressione, per l’indipendenza di giudizio e soprattutto
per il pluralismo delle opinioni. Non credo che la tecnologia possa illuminare
queste zone semioscure e risolvere i problemi che le producono. Anzi, per certi
versi l’illusione che, affidandosi alla téchne,
si possa attuare una democrazia più vera e compiuta, può aggravare quei
problemi, nascondendone l’esistenza, fingendo di averli già superati. Probabilmente
è mal posta la domanda di partenza che i sostenitori della democrazia diretta
rivolgono oggi alla politica; la domanda giusta non dovrebbe essere: “come fare
per consentire a tutti di decidere su ogni questione?”; bensì questa: “come
possiamo organizzare le istituzioni politiche affinché i governanti cattivi e
incompetenti non facciano troppi danni, e affinché possano essere sostituiti
senza spargimento di sangue?”. La domanda giusta, insomma, è quella che nel
1945 si poneva Popper ne La società
aperta e i suoi nemici (Armando Editore, Roma 1996, cfr. ad es. p. 174).
Non è importante chi deve comandare, e tanto meno il numero di chi comanda; è
importante, insegnava Popper, come controllare chi comanda. Più che la
partecipazione conta il controllo, poiché, come per la scienza, anche per la
politica non si hanno sistemi di governo infallibili, ma solo sistemi in cui è
possibile opporsi a chi decide e sistemi in cui non è possibile farlo: nel
primo caso avremo una “società aperta” (espressione, secondo Popper, meno
ambigua di “democrazia”); nel secondo caso avremo una “società chiusa”, ovvero
totalitaria.
Ma anche alla base della
società aperta dovranno esserci il sapere, l’equilibrio, la competenza. “La
democrazia – afferma Sartori al termine del saggio che ho utilizzato in questo
post – è un’apertura di credito all’homo
sapiens, a un animale abbastanza intelligente da saper creare e gestire da
sé una città buona. Ma se l’homo sapiens
è in pericolo, la democrazia è in pericolo” (G. Sartori, op. cit., p. 327). Questo autore, com’è noto, ha indicato spesso
nella televisione il principale nemico dell’homo
sapiens: la comparsa dell’homo videns,
scriveva Sartori, mette a repentaglio l’esistenza dell’animale sapiente, poiché
la tv sostituisce al sapere le emozioni del vedere: “la televisione traduce i
problemi in immagini; ma se poi le immagini non sono ritradotte in problemi, l’occhio
mangia la mente: ché il puro e semplice vedere non ci illumina per nulla su
come i problemi siano da inquadrare, proporzionare, affrontare e risolvere.
Semmai è vero il contrario: tutto va fuori proporzione, e nemmeno si capisce più
quali problemi siano fasulli e quali veri” (ivi, p. 326).
Oggi la comunicazione è ancora
dominata dalla tv ma, come sappiamo, è internet che le sta rosicchiando sempre
più spazio e appeal: l’homo navigans è migliore dell’homo videns? O sostituirà alla
democrazia dell’incompetenza e dell’irrilevanza, creata dalla televisione, una
democrazia totalitaria, convinta di essere nel giusto perché sostenuta da miliardi
di clic su I like? Inutile fare
profezie: meglio impegnarsi fin da ora ad inquinare internet con la cultura, nella
speranza che qualcosa di questa rimanga domani a disposizione dell’homo sapiens. Domani, quando l’homo navigans, cliccando su un sì o su
un no, deciderà il destino di un continente. (3 - fine)