sabato 6 aprile 2013

La democrazia diretta è un bene? Terza parte



Terza parte: Critica della “web democracy” referendaria



Secondo Sartori, come nel caso della parola democrazia anche in quello del concetto di autogoverno è facile arrivare ad una definizione astratta. Esso indica la capacità di “governare se stessi da sé” (G. Sartori, Democrazia cos’è, cit., p. 50). Tale forma di governo sarà quindi tanto più efficace ed intensa quanto meno esteso, in senso spaziale, è l’ambito del suo esercizio. L’intensità sarà massima, ad esempio, quando l’autogoverno si esercita su stessi come singoli individui; va degradando mano a mano che lo si esercita su più soggetti distribuiti in un ampio spazio; diventa minima quando l’estensione dei soggetti e dello spazio che essi occupano è massima. Anche l’estensione temporale non va sottovalutata: massime sono l’efficacia e l’intensità dell’autogoverno quando la sua durata è breve e carica dell’entusiasmo della novità o della drammaticità del momento (come nei momenti di tensione bellica o rivoluzionaria); minime mano a mano che ci si allontana dall’istante iniziale della costituzione dell’autogoverno, e questo comincia a diventare routine (ivi, pp. 50-52).

L’autogoverno non coincide necessariamente con la democrazia diretta. Quest’ultima, spiega Sartori, vuol dire “democrazia senza rappresentanti e senza rappresentanza”. Inoltre la democrazia diretta implica “anche immediatezza di interazioni, un rapporto diretto, faccia a faccia, o quasi, tra partecipanti (veri)” (ivi, p. 83). Ora, queste due caratteristiche danno luogo all’autogoverno quando le dimensioni dei gruppi che lo esercitano sono relativamente modeste: si può avere in un’assemblea, ad esempio, costituita da poche centinaia di persone; probabilmente nel demos delle città-stato greche, formato da “qualche migliaio di cittadini radunati in piazza” (ibidem). In questi esempi vi è “interazione” tra i componenti dei gruppi, poiché essi si vedono, gli uni osservano gli altri, ciascuno può parlare con gli altri. Si tratta di casi, insomma, nei quali è possibile, per quanto difficile, che i singoli discutano, affermino opinioni, o magari le cambino ascoltando gli argomenti degli altri. Ma se l’interazione non c’è, a causa dell’estensione del gruppo che tenta di autogovernarsi senza rappresentanti, allora viene meno “la democrazia illuminata dalla discussione che precede la decisione” e, con essa, cessa l’autogoverno. Rimane la democrazia diretta (ovvero democrazia senza rappresentanza, come si è detto), ma essendo esercitata da/su gruppi molto estesi (decine, centinaia di migliaia o milioni di individui) essa tende a diventare, come già spiegato nei due precedenti post, una tirannia. Democrazia senza discussione, senza mediazioni, senza possibilità di rappresentare differenze e minoranze, vale la pena ripeterlo, è uguale a dittatura.



Il rilievo più frequente a questo ragionamento, rilievo che in questi ultimi anni è stato utilizzato dai sostenitori della web democracy, è che le tecnologie odierne consentirebbero di superare la difficoltà costituita dal numero, garantendo due aspetti della democrazia diretta-autogovernante: l’interazione tra i singoli (quindi la discussione “illuminata” sarebbe salva); la partecipazione continua dei cittadini alle decisioni da prendere, attraverso il meccanismo del “referendum quotidiano”. Anche ammettendo che la discussione sia garantita e avvenga con trasparenza e correttezza (questione su cui tornerò poi), ciò che appare discutibile è proprio il meccanismo referendario. Seguiamo ancora il ragionamento di Sartori.

Indipendentemente dal sistema istituzionale adottato, quando si prende una decisione politica si possono avere “decisioni a somma positiva”, “a somma nulla” e “a somma negativa” (ivi, pp. 84-85). Si ha la prima quando tutti gli interessati dalla decisione ne sono avvantaggiati: tutti guadagnano qualcosa, o sono comunque soddisfatti per la decisione presa. Si ha la somma nulla quando chi vince, vince tutto, e chi perde, perde tutto. In questo caso “la vincita corrisponde esattamente alla perdita: io vinco quel che l’altro perde” (ivi, p. 85). Si ha decisione a somma negativa, infine, quando tutti ne vengono danneggiati o quando tutti perdono.


Il referendum è un meccanismo decisionale a somma nulla: “ogni volta si approva o respinge una proposta prefissata, e ogni volta ne esce un gruppo vincitore e un gruppo sconfitto. Divorzio sì o divorzio no; nucleare sì o nucleare no; e così via. […] se tutto (o il più) va in decisione referendaria, è il sistema nel suo complesso che diventa a somma nulla […]” (ibidem). Si potrebbe obiettare che anche nelle elezioni dei parlamenti avviene la stessa cosa: o il mio voto elegge un rappresentante, o va perduto. Sì, è vero, risponde Sartori, ma nella democrazia rappresentativa non si esaurisce ogni decisione nel momento del voto con cui si eleggono i rappresentanti, poiché questi, una volta eletti, “si parlano, discutono, negoziano, ‘scambiano’ concessioni reciproche, e sono pertanto in condizione di concordare soluzioni a somma positiva (per i loro rappresentati)” (ibidem). Nella democrazia referendaria, invece, ogni decisione è isolata, non c’è negoziato su di essa, non c’è modo di mediarla o di correggerla, o di integrarla con altre proposte. E, una volta presa, le altre proposte, sconfitte, escono dal novero delle decisioni possibili.



Veniamo ora al punto della trasparenza e della correttezza della discussione. Anche ammettendo che si riesca a far precedere ogni decisione da una discussione in chat, o attraverso i commenti di un blog, chi è che effettua la sintesi di essa, confezionando una proposta conclusiva? Chi gli ha affidato questo ruolo? Si tratta di un rappresentante eletto? Perché, allora, eleggerne uno solo? Che meriti ha rispetto ad altri per avere il potere di stabilire le agende dei quesiti da proporre? Poiché è chiaro che costui avrebbe un potere immenso: non solo di selezionare le proposte su un certo argomento, ma anche di dare priorità agli argomenti da sottoporre a referendum e, infine, di formulare le domande su di essi. Ed è noto che “una stessa domanda, a seconda di come viene formulata, facilmente oscilla nelle risposte di un 20 per cento: così un 60 per cento approva il diritto alla vita, ma poi uno stesso 60 per cento approva il suo contrario, e cioè il diritto all’aborto (il che significa che un 20 per cento si è impasticciato nel rispondere)” (ivi, p. 86). “Insomma, - conclude Sartori – la democrazia referendaria centuplica i rischi di manipolazione e di imbroglio del demos ben al di là di quanto già riesca al demagogo di cui abbiamo esperienza” (ibidem). Ancora più elevato è tale rischio se il moderatore-selezionatore del dibattito via web non è noto, non si sa come e perché operi, non agisce alla luce del sole, bensì nel chiuso di una stanza davanti ad un computer-server che può manovrare come meglio crede.



Ma non sono finiti qui i problemi della democrazia diretta referendaria. È importante anche comprendere le possibili conseguenze e le implicazioni di un sistema decisionale a somma nulla. La prima, continua Sartori, è che “la somma nulla tende a aggravare i conflitti: se chi perde, perde tutto, allora la sconfitta è cocente; e se la cosa si ripete giorno per giorno può diventare intollerabile” (ibidem). La seconda, connessa alla prima (e già discussa nei miei post precedenti) è che “la democrazia referendaria instaura, di fatto, un principio maggioritario assoluto che viola il principio (fondamentalissimo) del rispetto della minoranza” (ibidem). Come ho già spiegato, il principio del rispetto delle minoranze è calpestato laddove le decisioni siano prese in base al diritto della maggioranza di prendersi tutto. Terza implicazione, “il problema della pubblica opinione è tutto da riproporre” (ibidem), poiché in una democrazia referendaria è di vitale importanza non solo che l’opinione del pubblico sia bene informata sulla questione su cui è chiamata a deliberare, ma soprattutto che sia un’opinione di qualità. Scrive a questo proposito Sartori: “chi decide da sé – non per sé, si badi, ma per tutti – deve sapere su cosa decide, e deve anche padroneggiare il problema sul quale decide. […] Al cospetto della democrazia referendaria non possiamo più fingere che l’informazione sia competenza” (ivi, p. 87). Mentre in una democrazia rappresentativa è sufficiente che vi sia “un’opinione” per esprimere il proprio voto (ricordiamo che in filosofia l’opinione – doxa – è l’opposto di scienza – epistéme), in una democrazia referendaria, dove ogni voto richiesto è relativo sempre a questioni complesse, non è più sufficiente avere “un’opinione”, ma occorre avere padronanza scientifica delle questioni per cui si decide, o per lo meno “cognizione di causa”. Anche se si avesse il modo e il tempo di leggere un’intera enciclopedia sul problema sul quale dobbiamo esprimerci, non è detto che questo basti: riusciremmo, poi, a mettere a frutto un simile “arsenale di nozioni”, come dice Sartori, per decidere come votare?


Qualcuno obietterà che l’epoca attuale ha strumenti potenti di comunicazione, tali da trasformare le nostre società in altrettante comunità della conoscenza. Gli apologeti di internet, com’è noto, sostengono proprio questo (ad esempio James Surowiecki, che ho citato nel post del 28 agosto 2012). Anche ammettendo che essi abbiano un po’ di ragione (e non ne hanno affatto), cosa significherebbe ai fini del nostro problema? Che ogni cittadino, grazie ad internet, saprà valutare quale politica estera convenga adottare nei confronti della Corea del Nord? Che ogni cittadino saprà comprendere un bilancio dello Stato? Che ogni cittadino saprà cosa devono contenere i programmi di insegnamento delle scuole medie? Quante competenze dovrebbe avere ogni cittadino? Dovrebbe essere fiscalista, pedagogista, economista, esperto di bioetica e di strategia militare, nonché sociologo, medico e ingegnere… Tutto ciò in un mondo sempre più interdipendente (proprio a causa di internet) nel quale le decisioni diventano sempre più complesse anche per gli “esperti”. È ovvio che il cittadino medio non potrebbe far fronte a questa richiesta di “cultura della complessità” che la democrazia referendaria pretenderebbe, perciò dovrebbe decidere su questioni complicate affidandosi a “quel che si dice” in rete, ed illudendosi che la propria inesperienza e/o ignoranza del problema sia una virtù, mentre, al contrario, la sua dipendenza da internet (o dalla televisione) lo esporrebbe ad ogni sorta di manipolazione. Per questo Sartori chiude il suo ragionamento così: “Dio ci salvi, allora, dagli inesperti che ci propongono il governo diretto dall’inesperto trionfante, dal cittadino premi-bottone” (ivi, p. 88). Queste parole sono state scritte all’inizio degli anni Novanta; oggi esse, alla luce di quanto sta accadendo in Italia, sembrano risuonare come una profezia.



Prevengo ancora un’obiezione: anche il politico eletto in Parlamento non ha competenze specifiche, anche lui non è un medico e contemporaneamente un sociologo. Vero, ma nel suo partito ha le risorse che gli servono per poter decidere: ha una o più persone che hanno studiato il problema, che ne hanno a lungo discusso con gli esperti, che hanno riferito le loro conclusioni e, quindi, possono consegnare al politico rappresentante una competenza sulla questione su cui sarà chiamato a decidere. Tutto ciò ha richiesto tempo, studio, confronto, risorse: come può un singolo cittadino diventare competente nello stesso modo, tenuto conto che le questioni sulle quali dovrebbe decidere possono essere decine e decine ogni mese? Dovrebbe smettere di lavorare e trasformarsi in un “politico di professione”, cioè proprio in quella figura che gli apologeti della democrazia diretta dipingono come esecrabile e, quindi, da eliminare dalla politica.



Autogoverno, democrazia diretta, web democracy. Dietro ciascuna di queste parole si intravedono zone d’ombra assai pericolose, rischi seri per la libertà di espressione, per l’indipendenza di giudizio e soprattutto per il pluralismo delle opinioni. Non credo che la tecnologia possa illuminare queste zone semioscure e risolvere i problemi che le producono. Anzi, per certi versi l’illusione che, affidandosi alla téchne, si possa attuare una democrazia più vera e compiuta, può aggravare quei problemi, nascondendone l’esistenza, fingendo di averli già superati. Probabilmente è mal posta la domanda di partenza che i sostenitori della democrazia diretta rivolgono oggi alla politica; la domanda giusta non dovrebbe essere: “come fare per consentire a tutti di decidere su ogni questione?”; bensì questa: “come possiamo organizzare le istituzioni politiche affinché i governanti cattivi e incompetenti non facciano troppi danni, e affinché possano essere sostituiti senza spargimento di sangue?”. La domanda giusta, insomma, è quella che nel 1945 si poneva Popper ne La società aperta e i suoi nemici (Armando Editore, Roma 1996, cfr. ad es. p. 174). Non è importante chi deve comandare, e tanto meno il numero di chi comanda; è importante, insegnava Popper, come controllare chi comanda. Più che la partecipazione conta il controllo, poiché, come per la scienza, anche per la politica non si hanno sistemi di governo infallibili, ma solo sistemi in cui è possibile opporsi a chi decide e sistemi in cui non è possibile farlo: nel primo caso avremo una “società aperta” (espressione, secondo Popper, meno ambigua di “democrazia”); nel secondo caso avremo una “società chiusa”, ovvero totalitaria.
 
Karl R. Popper (1902-1994)
Ma anche alla base della società aperta dovranno esserci il sapere, l’equilibrio, la competenza. “La democrazia – afferma Sartori al termine del saggio che ho utilizzato in questo post – è un’apertura di credito all’homo sapiens, a un animale abbastanza intelligente da saper creare e gestire da sé una città buona. Ma se l’homo sapiens è in pericolo, la democrazia è in pericolo” (G. Sartori, op. cit., p. 327). Questo autore, com’è noto, ha indicato spesso nella televisione il principale nemico dell’homo sapiens: la comparsa dell’homo videns, scriveva Sartori, mette a repentaglio l’esistenza dell’animale sapiente, poiché la tv sostituisce al sapere le emozioni del vedere: “la televisione traduce i problemi in immagini; ma se poi le immagini non sono ritradotte in problemi, l’occhio mangia la mente: ché il puro e semplice vedere non ci illumina per nulla su come i problemi siano da inquadrare, proporzionare, affrontare e risolvere. Semmai è vero il contrario: tutto va fuori proporzione, e nemmeno si capisce più quali problemi siano fasulli e quali veri” (ivi, p. 326).





Oggi la comunicazione è ancora dominata dalla tv ma, come sappiamo, è internet che le sta rosicchiando sempre più spazio e appeal: l’homo navigans è migliore dell’homo videns? O sostituirà alla democrazia dell’incompetenza e dell’irrilevanza, creata dalla televisione, una democrazia totalitaria, convinta di essere nel giusto perché sostenuta da miliardi di clic su I like? Inutile fare profezie: meglio impegnarsi fin da ora ad inquinare internet con la cultura, nella speranza che qualcosa di questa rimanga domani a disposizione dell’homo sapiens. Domani, quando l’homo navigans, cliccando su un sì o su un no, deciderà il destino di un continente. (3 - fine)

martedì 2 aprile 2013

La democrazia diretta è un bene? Seconda parte.



Seconda parte: Estinzione dell’esecutivo e tirannia. Opposizione-collaborazione tra democrazia e liberalismo

Il filosofo Roberto Esposito

Scrive Roberto Esposito (tra i più importanti filosofi italiani della politica) che “l’Uno – il Bene, la Giustizia – non è traducibile in politica” (R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, (n.e.) Il Mulino, Bologna 2011, pp. 31-32). E ciò perché la politica è conflitto, molteplicità, divenire: impossibile ridurre ad uno ciò che per definizione è doppio e triplo, ciò che è fluido e inafferrabile. La possibilità di neutralizzare il conflitto, annullando le differenze, è atteggiamento “impolitico”; la politica, invece, è “irriducibilmente discorde” (p. 39).


Questa discordia “irrappresentabile”, afferma Esposito, è tanto più evidente nella democrazia. In Rousseau il valore della democrazia è la comunità, intesa come corpo organico e unitario, privo di differenziazioni. Il sistema democratico così inteso è talmente tanto difficile da rinvenire nella storia, che lo stesso Rousseau lo definisce al tempo stesso necessario e impossibile. Scrive infatti nel Contratto sociale: “a prendere la parola a rigore, una vera democrazia non è mai esistita né esisterà mai” (J. J. Rousseau, Il contratto sociale, in Id. Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 309, citato da Esposito, op. cit., p. 59). Perché la democrazia immaginata dal filosofo ginevrino sarebbe così difficile da realizzare? Perché, spiega Esposito, essa consiste in “quel regime in cui tutti i cittadini, o almeno la maggior parte di essi, sono magistrati e cioè in cui la sovranità coincide tanto capillarmente con la volontà generale da bruciare tutte le scissioni da cui si presenta solcato il corpo politico: tra legislativo ed esecutivo, pubblico e privato, potere e sapere” (p. 60). Per Rousseau c’è vera democrazia solo se ciascuno è “incorporato” nell’Uno della comunità e del potere “in modo che ogni particolare – scriveva Rousseau nell’Emilio – non si creda più uno, ma parte dell’unità e non sia più sensibile che nel tutto” (J. J. Rousseau, Emilio, in Opere cit., p. 351, citato da Esposito, op. cit., p. 60).
 
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
Qui è il punto dolente della democrazia diretta. “Sembrerebbe dunque – afferma Rousseau – che non si potesse avere una migliore costituzione che quella in cui il potere esecutivo fosse congiunto al legislativo: ma questo proprio rende tale governo insufficiente sotto certi rispetti, perché le cose che devono essere distinte non lo sono, e il principe e il sovrano, essendo la stessa persona, non formano, per così dire, che un governo senza governo” (J. J. Rousseau, Il contratto sociale cit., p. 308, citato da Esposito, op. cit., p. 61). In realtà, commenta Esposito, esiste una forma di governo in cui le duplicità e le molteplicità vengono unificate in Uno, in cui governanti e governati, esecutivo e legislativo, maggioranza e minoranza, palazzo del potere e strada del cittadino, alto e basso sono inscindibili: questo governo è la “tirannide”. “Tirannide – scrive Esposito – è l’unificazione coatta di ciò che deve essere distinto: legislativo ed esecutivo, diritto e giustizia, potere e sapere” (p. 61). Ma questa forma estrema di democrazia compie il rovesciamento della stessa nel suo contrario, producendo, insieme all’estinzione dell’esecutivo e dello Stato, quella della democrazia. “La soppressione dello Stato – scriveva Lenin in Stato e rivoluzione – è anche la soppressione della democrazia, e […] l’estinzione dello Stato è l’estinzione della democrazia” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), Editori Riuniti, Roma 1970, p. 155, citato da Esposito, op. cit., p. 63).
Lenin (Vladinir Ilic Ulianov, 1870-1924)

Esposito ricorda poi le critiche di Nietzsche, di Weber, di Kelsen e di Schumpeter al mito comunitario della democrazia diretta, basata sulla totale identificazione del corpo sociale con le istituzioni che governano. Per questi autori è anzi da mettere in discussione il concetto stesso di “bene comune” su cui si fondano i miti della comunità e della volontà generale. Se la democrazia ha una possibilità di sopravvivere senza diventare il suo contrario (tirannia) ciò può avvenire solo se accetta che il “corpo sociale” sia attraversato da diversità e fratture non armonizzabili, non riducibili, non neutralizzabili. Solo sottraendo alla democrazia il mito della comunità come corpo unico, essa può rimanere una proposta percorribile sul terreno politico. La democrazia deve restare “vuota di comunità” – per usare l’espressione di Esposito – se vuole tentare di governare il corpo sociale senza schiacciare il volere degli individui che lo costituiscono.



Ma se questo è vero, allora devono permanere le scissioni “classiche” della democrazia liberale: i cittadini non sono il governo e il governo non coincide con i cittadini; l’esecutivo non può coincidere con il legislativo e questo non può pretendere di diventare esecutivo; la giustizia assoluta non è la legge, e la legge non può diventare l’incarnazione della giustizia assoluta; il sapere non può coincidere con il potere e questo non può togliere al primo la sua autonomia sostituendosi alla libera ricerca; singolo e comunità, infine, devono rimanere ben distinti. Corollario di queste affermazioni è che la democrazia deve essere mediata da procedure, voti, controlli, confronti, istituzioni separate: se pretende di essere diretta, elimina gli spazi del dissenso e della diversità, elimina il controllo della minoranza sulla maggioranza. In una parola, si trasforma in dittatura.

Apparentemente, liberalismo e democrazia sembrano essere antitetici: il primo afferma la tutela dell’individuo e delle sue libertà inviolabili; la seconda tutela la comunità riducendo le differenze ad unum. Eppure, a ben vedere, è solo dalla collaborazione tra le due forme di governo che si può realizzare un sistema meno ingiusto dei due singolarmente presi. La democrazia dovrebbe garantire l’uguaglianza davanti alla legge, la solidarietà tra gli individui, la riduzione delle povertà più gravi e più diffuse. Tutto ciò, però, dovrebbe avvenire nel rispetto delle libertà del singolo: la democrazia non deve violare la sfera intima di queste libertà, sia di quelle che riguardano l’agire l’esteriore, sia di quelle che riguardano la coscienza dell’individuo. Allo stesso tempo, l’esercizio di queste libertà da parte del singolo non deve né violare le leggi comuni né mettere in discussione il vincolo di solidarietà che lo lega ai molti.

Perché il collegamento difficile tra liberalismo e democrazia si realizzi e partorisca almeno – mi si conceda la metafora – una “unione di fatto”, se non proprio un “sacro matrimonio”, occorre che si rispettino le forme e le divisioni classiche tra i poteri. La democrazia liberale deve essere “formale”, “procedurale” e basata sulla distinzione tra istituzioni e cittadini, oltreché tra esecutivo, legislativo, giudiziario. Se questo non avvenisse, la democrazia si caricherebbe di valori mitici, come spiega Esposito, proponendosi di realizzare la Giustizia, il Bene, il Volere del Popolo, l’Assoluto. In tal modo, come ho già detto, scivolerebbe nella dittatura, distaccandosi dal liberalismo.

Secondo alcuni (in decisa crescita numerica negli ultimi tempi) queste argomentazioni sarebbero state superate dagli sviluppi della tecnologia: questa, si dice, consentirebbe di realizzare la democrazia diretta e l’autogoverno. Il web, in particolare, permetterebbe di effettuare “referendum quotidiani” (per utilizzare, fuori contesto, la famosa espressione di Ernest Renan: “l'existence d'une nation est […] un plébiscite de tous les jours”: Qu’est-ce qu’une nation?, cap. III, 1882) su ogni questione, facendo coincidere, appunto, il governo con i governati. La democrazia rappresentativa, in tal modo, verrebbe superata da una nuova, più avanzata e più diretta democrazia popolare. Nel prossimo post vedremo se le cose stanno davvero così. (2 – continua)