giovedì 25 aprile 2013

"Lo vuole il Popolo!"


Prima parte – Il voto ha espresso
una chiara volontà popolare?


“Lo vogliono i cittadini”. “Lo vuole la Rete”. “Lo vogliono gli italiani”. “Lo vuole la gente”. Questo è il ritornello che nelle ultime settimane ho sentito ripetere continuamente da chi sosteneva che “dalle elezioni di febbraio è emersa una volontà di cambiamento”.

Già quest’ultima affermazione mi è sempre suonata enfatica, anzi una vera e propria forzatura del risultato elettorale. In realtà dall’esito delle urne non è affatto emerso un dato che dicesse: “gli italiani vogliono il cambiamento”. Un quarto circa ha scelto Bersani, un quarto Grillo, un quarto Berlusconi e un quarto, non dimentichiamolo, non ha scelto nulla, perché non ha votato. Questo è il nuovo che il voto avrebbe espresso? A me sembra piuttosto che l’Italia si sia divisa in quattro parti; e che dentro ciascuna di queste parti vi sia un po’ di tutto, dalla rabbia alla speranza, dalla paura alla rassegnazione, dal desiderio di conservazione a quello di cambiamento. Insomma, dal voto è emersa molta incertezza. Tornerò tra un attimo su questo punto, secondo me fondamentale, dell’incertezza.


Anche in occasione della scelta del candidato al Quirinale abbiamo assistito all’uso retorico dell’espressione “lo vogliono gli italiani”, sbandierata ai quattro venti da alcuni soggetti. Essa è servita a costruire un autentico ricatto mediatico sferrato tramite internet. Il M5S ha sostenuto più volte al giorno, dall’inizio del mese di aprile, che “la Rete” sarebbe stata capace di scegliere il candidato “grillino” da proporre come Presidente. Con l’espressione Rete intendeva naturalmente “gli italiani”, “la nazione tutta”, “il popolo tutto”. La “Rete”, per il Movimento 5 Stelle, coincide con la nazione intera, contrapposta al Palazzo. Oggi sappiamo (vedi qui), per disarmante ammissione dello stesso Vate-Grillo, che alle cosiddette “Quirinarie” hanno votato 28.500 persone, il 40 % in meno degli aventi diritto. E anche questi ultimi, se avessero votato tutti, sarebbero stati comunque pochissimi: solo 48.200, poco più dei voti presi da Tabacci alle primarie del Pd del novembre 2012. Ma torniamo ai voti espressi, i 28.500: non solo essi rappresentano lo 0,1 % degli elettori italiani, ma i votanti non hanno neppure espresso un volere unanime, poiché hanno disseminato quella cifra lillipuziana su ben 10 candidati, Grillo compreso. E quanti hanno votato per Rodotà, la cui candidatura ha contribuito a spaccare il Pd? Aprite bene le orecchie: 4.667. Sì, avete capito bene: meno di 5000 italiani; meno di un paesino della valle Esina; meno dello 0,02 % degli elettori dell’intera nazione. Questo sarebbe il “volere del popolo”?
 
La scelta del candidato 5 Stelle denominata come "Elezioni del Presidente
della Repubblica-Votazioni on line"

Qualche giorno fa Angelo Panebianco sul Corriere della sera ha scritto queste parole: “c’è purtroppo in giro troppo pressapochismo istituzionale (mescolato a malafede). C’è, in primo luogo, in settori dell’opinione pubblica, una diffusa incomprensione dell’abc della democrazia. Quando si dice che la democrazia è procedura si intende dire che solo se si danno procedure formali chiare, pubbliche e rispettate si può, prima di tutto, misurare il consenso di cui gode il rappresentante. È la certezza delle procedure che ci tutela contro coloro che pretendono di parlare a nome del ‘popolo’ avendo alle spalle, o manipolando, piccole minoranze più o meno organizzate […]. È questo, prima di tutto, che fa della democrazia rappresentativa l’unica forma possibile di democrazia, la sola che impedisca la prevaricazione dei piccoli numeri (le minoranze intense orientate da capipopolo che nessuno ha eletto) ai danni dei grandi numeri (il grosso degli elettori)” (A. Panebianco, La Repubblica è sospesa nel vuoto, Corriere della sera, 20 aprile 2013).



Far passare lo 0,02% dell’elettorato come “il volere del popolo”, o anche soltanto, con espressione non meno retorica, “il volere della Rete” è appunto prevaricazione bella e buona. Una pretesa tirannica, fondata su una balla colossale ammannita dal feticcio “Rete”. In realtà, elezioni di febbraio, scelta dei candidati per il Quirinale e, infine, la stessa elezione del Presidente sono tutti risultati che mostrano divisione, incertezza, incapacità ad intravedere una strada per uscire dall’impasse, latitanza di soluzioni, sbandamento: in una parola, confusione. Il popolo italiano (e i suoi rappresentanti, com’è ovvio) è confuso e disorientato, tutt’altro che proteso verso un mitico “nuovo mondo”. È proprio in frangenti storici come questo che si scopre come il sistema rappresentativo abbia virtù che altri sistemi non possiedono: nessuno sa cosa sia il nuovo, ma presumibilmente ciascuno possiede un “pezzetto” di verità; di qui la necessità di dialogare, di confrontarsi e, ebbene sì, di trattare.
 
Franceschini contestato mentre cenava (sabato 20 aprile)
La trattativa è l’anima di ogni sistema democratico, l’unico ad accettare come basilare l’assunto che “nessuno possiede tutta intera la verità” e, perciò, l’unico che riconosca il conseguente corollario di questo assunto, ovvero: “ciascuno può contribuire ad avvicinarsi al vero”. In una situazione di incertezza come questa riconoscere la validità di queste regole è quanto mai importante: o si dialoga e si tratta, oppure si passa la parola alla prevaricazione, all’intimidazione, alla violenza squadrista (come quella di cui stava per restare vittima Dario Franceschini qualche sera fa, a Roma). (1-continua)