lunedì 29 aprile 2013

"Lo vuole il popolo!". Conclusione: il "popolo" contro l'inciucio.


Seconda parte – Il “popolo” contro l’inciucio



Una parte degli italiani (quanti? Un quarto? Un decimo? Un centesimo?) sembra non amare le trattative. Alcuni “megafoni”, che dicono di parlare a nome del “popolo”, affermano che gli accordi sono “inciuci”. Dietro questo termine c’è il “sospetto universale”, come ha scritto ieri Galli della Loggia, che ogni compromesso sia un complotto, che esso nasconda una cospirazione tra poteri forti ai danni, ancora una volta, del “popolo”: che insomma vi sia da un lato la malvagità diabolica degli “inciucisti”, dall’altro la purezza etica del popolo che sa sempre in cosa consiste il bene, il puro, il buono. “La categoria d’inciucio, nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità – osserva Galli della Loggia – costituisce una sorta di versione in tono minore di un’altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria di ‘misteri d’Italia’ con la connessa tematica del ‘grande complotto’. Ogni vero inciucio, infatti, contiene inevitabilmente un elemento di ‘mistero’ e d’alta parte ogni ‘mistero’ non implica forse chissà quanti inciuci?” (E. Galli della Loggia, Il sospetto universale, Corriere della sera, 24 aprile 2013).




Sono felice di apprendere che un attento studioso della nostra società, come l’editorialista del Corriere, sia giunto più o meno alle conclusioni cui ero pervenuto nel post del 18 marzo scorso: una parte del pubblico italiano è attraversata da un’onda di “paranoia cospirazionista”, figlia della sottocultura televisiva di massa, ma rafforzata e diffusa da internet che ha esaltato e quasi, direi, legittimato a livello planetario l’uso della retorica“complottista”, condizionando parte dell’opinione pubblica. Oggi questo uso è diventato strumento politico nelle mani soprattutto (sebbene non esclusivamente) del M5S: Grillo, Casaleggio e alcuni dei loro accoliti hanno fatto e stanno facendo del tema del complotto ai danni del “popolo” il motivo dominante del loro conflitto con le istituzioni della Repubblica.




Eppure, come abbiamo visto, non c’è nessun volere unanime e certo dietro le manifestazioni di voto (nell’urna o in rete) di queste ultime settimane; soprattutto in quelle svolte in rete non c’è alcun “popolo”, poiché i numeri esibiti corrispondono, a mala pena, a quelli dei tifosi della curva di uno stadio di calcio. E riguardo agli “inciuci” occorre ricordare che è la nostra stessa Costituzione ad affidare ai partiti, non al popolo, il compito di rappresentare la nazione: l’attribuzione di forti responsabilità ai partiti e al Parlamento, e di deboli poteri all’esecutivo, obbliga le parti politiche a cercare accordi e compromessi, al fine di far funzionare l’attività legislativa. Si dirà: allora cambiamo la Costituzione! Certo, è proprio quello che da oltre 20 anni molti in Italia (tra questi Sartori, ad esempio) si affannano a chiedere, inascoltati e spesso insultati, dai sostenitori della “voce del popolo”, come affossatori della Costituzione nata dalla Resistenza: la nostra Costituzione è “la più bella del mondo”, quindi “non si tocca!”. Quante volte l’abbiamo sentito dire da sedicenti interpreti del “volere della nazione tutta”?



Naturalmente per cambiare la Costituzione occorre seguire precise procedure, create apposta per evitare le prevaricazioni di cui parla Panebianco nell’editoriale citato nello scorso post. “Le buone Costituzioni sono sempre state stilate da giurisperiti, mentre le Costituzioni che sono un parto assembleare (vedi America Latina) sono state tutte pessime (come non potevano essere)”, ha scritto di recente Giovanni Sartori (La libertà degli eletti, Corriere della sera, 17 aprile 2013). Come potrebbero, in Italia, lavorare serenamente esperti di legge, nel chiuso del proprio studio, se fuori la piazza viene sobillata da chi grida all’inciucio nel nome del popolo italiano? Anche se poi, come accaduto nel 1946-’47, il compromesso tra varie parti politiche venisse raggiunto in Parlamento alla luce del sole, siamo sicuri che il “megafono della Rete” non urlerebbe al “tradimento del volere del popolo emerso dalle consultazioni online”? Costoro non accetterebbero nemmeno un’Assemblea Costituente liberamente eletta, come quella del 2 giugno 1946; né alcun “compromesso costituzionale” (ripeto: come quello del ’46-’48) sarebbe raggiungibile in un contesto di intimidazioni, sobillazioni, sospetti, dicerie di complotti.

Manifestazione interventista a Milano (maggio 1915)
Nel maggio 1915 qualche migliaio di scalmanati nazionalisti italiani (per lo più giovanissimi) inscenarono manifestazioni violente e clamorose per spingere il Parlamento italiano ad interrompere la condizione di neutralità e a decidere l’entrata in guerra dell’Italia. I giornali vicini al “movimento” (che rappresentavano allora quel che oggi è la “Rete”: il più forte mezzo di comunicazione di massa) scrivevano parole di fuoco per sostenere l’interventismo. Il Parlamento era in buona parte neutralista, sebbene fosse disorientato da quanto stava accadendo. Per convincere l’Italia ad entrare in guerra, l’Inghilterra aveva avanzato generose promesse nel Patto di Londra, firmato ad aprile dal governo Salandra e reso pubblico all’inizio di maggio, promesse che costituivano una tentazione, ma, ciò nonostante, nell’incertezza sul da farsi, il 16 maggio il Parlamento tolse la fiducia a Salandra, e mise ogni decisione nelle mani del Re, il quale respinse le dimissioni del governo e ribadì in questo modo la scelta interventista.
 
Mussolini (in primo piano, con i baffi) alla
manifestazione interventista di Milano (14 maggio 1915)
Ebbene, mentre in Parlamento accadeva questo, un gruppo di giovani nazionalisti, sganciatosi da una delle rumorose manifestazioni romane pro-guerra, fece irruzione nell’androne di Montecitorio, ruppe qualche vetro, spaventò parlamentari e commessi, cantò qualche canzonaccia e poi se ne andò. A commento di questo episodio, il giorno dopo Mussolini, già interventista, scriveva sul Popolo d’Italia: “La terribile settimana di passione dell’Italia, si è chiusa con la vittoria del Popolo. […] le nuvole basse della mefitica palude parlamentare sono dileguate davanti al ciclone che prorompeva dalle piazze. […] L’irruzione dei cittadini romani nei sacri recinti della Camera è un segno dei tempi. Si deve a puro caso se oggi Montecitorio non è un mucchio di macerie nere. Ma si deve al popolo italiano se oggi l’Italia non è al livello della Grecia e della Turchia. […] Ora si respira. L’orizzonte è sgombro e sulla cima estrema vi fiammeggia la volontà d’Italia. Volontà di guerra. L’ha dichiarata il Popolo al disopra della mandria parlamentare. Il Re l’ha inteso. La guerra c’è” (in Stefano Farina, Il Ventesimo secolo. Storia e documenti, vol. I: 1898-1922, Roma, Spazio Tre, 2005, p. 415). Qualche giorno prima, sempre Mussolini aveva definito i deputati “pusillanimi, mercatori, ciarlatani, proni al volere del Kaiser”; e il Parlamento “bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo” (Popolo d’Italia, 11 maggio 1915, in op. cit., p. 411). Gli fece eco D’Annunzio, con un violento discorso pronunciato a Roma il 13 maggio 1915: “Non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo” (op. cit., p. 413).
 
Il Popolo d'Italia annuncia con enfasi
populista l'entrata in guerra dell'Italia
Così, una sparuta minoranza, violenta e antiparlamentare, spacciandosi per interprete del “volere della Nazione” e del “popolo”, portò il Paese in guerra. Parole di fuoco suscitarono azioni dirette e violente. L’azione violenta, volontaristica e diretta, sostituita al grigiore del dibattito parlamentare, venne gabellata per “volontà degli italiani”. Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi. Le parole sono azioni, scriveva Ludwig Wittgenstein. E possono diventare pallottole.

Oggi siamo di nuovo di fronte alla stessa situazione del 1915? In effetti, poche migliaia di persone sono riuscite a tenere in scacco il Parlamento, hanno impedito per settimane la formazione di un governo con ostinazione, hanno ricattato le istituzioni autoproclamandosi voce della Rete, hanno intimidito gli eletti. Il tutto spacciando le proprie azioni per “volontà popolare”. Non ci si può giustificare affermando che anche i partiti (sottinteso: “vecchi”) non rappresenterebbero il popolo, oppure affermando che la democrazia ormai è morta e quindi tanto vale fare un massacro. Finché si sta nell’alveo delle leggi e della Costituzione (come ha affermato lo stesso Rodotà commentando la “marcia su Roma” dei grillini della scorsa settimana) la democrazia non è morta. Che i suoi meccanismi siano da rivedere, che la stessa Costituzione sia da riformare e che debba nascere una vera Seconda Repubblica è sacrosanto; che il ritardo nell’attuare queste riforme abbia portato l’Italia all'impasse di oggi è altrettanto vero. Ma che si voglia fare strame di quel che resta, calpestando diritto, procedure, regole in nome di un’inconsistente “volere della gente” è molto pericoloso: non è il “nuovo”, è solo un conato autoritario che aspira ad eliminare ogni potenziale avversario. Il nuovo consiste nell’attuare le riforme di cui abbiamo bisogno, non nell’infuocare le piazze con la rabbia e il risentimento. Per fare le riforme servono trattative, accordi, compromessi. Riflettiamoci, prima di vedere ancora il sangue scorrere. (2-fine)