venerdì 14 giugno 2013

La guerra civile in Siria e i social media

L’orrore servito su Youtube




Lascio ancora una volta le beghe politiche italiane, e in particolare la telenovela dei deputati M5S e dei burrascosi rapporti con il loro leader, per dedicarmi alle più gravi questioni internazionali di queste ultime settimane. Tornerò in post futuri sulla “grilleide”.


Qui mi occupo di nuovo della Siria (ho già scritto un post sulla questione il 29 dicembre scorso), perché quello sventurato paese sta diventando un banco di macelleria, per parafrasare il giudizio di Hegel sulla storia contemporanea. Il Time del 27 maggio scorso ha dedicato un servizio alla questione, titolando in copertina Syria’s descent into madness. Il resoconto, scritto da Aryn Baker e corredato da raccapriccianti fotografie, lascia letteralmente allibiti: entrambi i lati della guerra civile, in corso da due anni (guerra che, non dimentichiamo, ha già mietuto 90 mila vite umane), sono piombati, spiega l’autore, nelle “profondità di una nuova depravazione” che viene accuratamente documentata dai carnefici per essere postata su Youtube, ad uso di milioni di persone in tutto il mondo.
 
Khalid al-Hamad (a sinistra, con il lanciarazzi in spalla)
Il servizio della rivista americana racconta, in particolare, la storia di Khalid al-Hamad, nome di battaglia Abu Sakkar, comandante di una delle brigate di ribelli che si oppongono al regime di Assad. Ebbene, costui di recente ha girato un video, tra i tanti cruenti che ha già reso pubblici, in cui lo si vede impugnare un coltello mentre si sta chinando sul corpo di un soldato morto. C’è un buco nel petto del soldato; dal buco Abu Sakkar estrae dapprima quel che sembra essere il cuore dell’uomo e lo appoggia su un piatto, poi strappa dalla cavità quel che sembra essere un polmone. Dopo aver scavato ancora per qualche secondo nella carne del cadavere, alza il viso verso la videocamera, tenendo un organo in ciascuna mano e dice: “Giuro che vi mangeremo i cuori e i fegati, cani di Bashar!”. La truculenta minaccia è rivolta ai sostenitori del Presidente Bashar al-Assad, contro il quale i ribelli sono insorti. Tutto intorno alla scena una piccola folla grida “Allah akbar!” (“Allah è grande”). Poi Abu Sakkar porta uno dei due organi sanguinolenti alle labbra e inizia a strappare pezzi di carne con i denti.
 
Una sequenza del film postato su Youtube
Combattenti dell'Fsa ad Aleppo

Il video è stato postato il 12 maggio su Youtube dai sostenitori di Assad per dimostrare che i ribelli sono teppisti e terroristi; il suo contenuto è stato anche condannato dall’Fsa (Free Syrian Army), una delle principali forze antigovernative: i comandanti di questo esercito ribelle hanno affermato che cercheranno Abu Sakkar e che lo processeranno. Ma nel frattempo “il video è stato accolto con giubilo trionfante da molti simpatizzanti dei ribelli, i quali hanno esaltato al-Hamad perché risponde con atrocità alle atrocità del regime”. Un fan ha postato su Facebook un commento che ha avuto poi un’ampia circolazione: “Abu Sakkar, possa tu essere benedetto da Dio, e che ti dia la forza”. Un altro ha scritto: “Ciò che hai fatto è la vendetta nei confronti dei fratelli uccisi”. Su Facebook gli attivisti della ribellione anti-Assad hanno cambiato in massa il loro stato, nel quale tuttora si può leggere, accanto al link del video, “Abu Sakkar, il mangiatore di cuori dei Shabiha, mi rappresenta” (Shabiha è il termine spregiativo per indicare i teppisti leali al regime).

Al-Hamad e i suoi seguaci, combattenti o meno, non mostrano vergogna né pentimento per aver compiuto o difeso simili atroci comportamenti. Non si sentono in colpa neppure di fronte alla religione islamica che, pure, condanna il cannibalismo. Essi affermano che la violenza, anche la più efferata e raccapricciante, è solo una reazione ai crimini commessi dal regime, una vendetta, insomma, provocata dalle atrocità compiute dal governo e dai suoi sostenitori in questi due anni di guerra civile. “Voi – ha dichiarato al-Hamad a Time che l’ha intervistato tramite Skype – non avete visto ciò che noi abbiamo visto, non avete vissuto quel che noi abbiamo vissuto”. Nessuno, hanno affermato su internet molti suoi sostenitori, ha il diritto di parlare e di criticare se non ha vissuto lo strazio che Assad ha inflitto alla sua stessa popolazione.
 
Bashar al-Assad, il dittatore siriano
In effetti, il regime ha commesso crimini anche più gravi di quello commesso da al-Hamad. Ha sparato su folle inermi che manifestavano; ha raso al suolo interi villaggi, perché ritenuti rifugi di “terroristi e ribelli”, e bruciato i corpi degli abitanti dopo averne accatastato i cadaveri; ha torturato, seviziato, stuprato centinaia di individui solo perché sospettati di essere semplici oppositori del regime; ha utilizzato milizie irregolari formate da teppisti che hanno seminato il terrore in ogni città, in ogni quartiere. Nel 2011 destò orrore in tutto il mondo la storia del tredicenne Hamza Alì al-Khateeb, torturato fino alla morte dalle soldataglie di Assad (vedi, ad esempio, la notizia sul Daily Mail on line). Oggi le Nazioni Unite stanno raccogliendo prove relative all’uso di armi batteriologiche o chimiche contro la popolazione civile. Rapporti dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani affermano che i morti di questi terrificanti 24 mesi di conflitto potrebbero essere molti di più dei 93 mila finora censiti (vedi United Nations Uman Rights, Office of the High Commissioner).
 
La Brigata Omar al-Farook, comandata
da al-Hamad
Le atrocità commesse da ambo le parti scoraggiano gli interventi dell’Occidente: la Casa Bianca, che proprio in queste ore sta decidendo se fornire armi ai ribelli, è stata molto titubante finora, perché sapeva che gli aiuti militari potevano finire nelle mani di personaggi come al-Hamad. Del resto non è facile districarsi nel ginepraio delle forze siriane ribelli: accanto all’FSA, apparentemente più affidabile, sappiamo che vi è anche il Fronte al-Nusra, gruppo terroristico affiliato ad al-Qaeda; infine vi sono i gruppi autonomi come quello comandato da al-Hamad, ovvero la Brigata Omar al-Farooq: gruppi che nominalmente dovrebbero riconoscersi nella coalizione di forze dell’Fsa, ma non sempre questa alleanza condivide l’operato di tutte fazioni, pur riconoscendone l’utilità, in una lotta senza quartiere com’è la guerra civile siriana.
 
Città devastate in Siria
Ma in questo guazzabuglio di sigle, di gruppi, di orrore e di sangue, il nuovo protagonista è diventato internet. “Se la Primavera Araba – commenta il Time – ha dato al mondo la sua prima rivoluzione accompagnata da Facebook, la Siria sta partorendo la prima guerra con Youtube”. Se in Egitto e in Tunisia i social network servirono a diffondere le parole d’ordine della rivolta e a riprendere le immagini delle manifestazioni pacifiche, oggi in Siria i social media servono a diffondere una perversa propaganda fatta di atrocità, di orrore, di morte. Le due parti sembrano competere nel postare video più raccapriccianti di quelli del nemico, sia per dimostrarne l’immoralità, sia per terrorizzarlo con l’esibizione delle azioni di vendetta: “occhio per occhio, dente per dente”. I combattenti delle opposte formazioni hanno preso alla lettera il precetto religioso.


Si potrebbe candidamente osservare che basterebbe un po’ più di rigore censorio, da parte degli amministratori di Youtube, per evitare la rincorsa alla pubblicazione degli orrori. Ma non è così, sarebbe un’osservazione ingenua e irrealistica. Intervistati da Time, i responsabili di Google, attuale compagnia proprietaria di Youtube, sono stati chiarissimi: anche possedendo una definizione di “filmato inappropriato”, definizione che non esiste, sarebbe impossibile controllare il flusso dei video riversati in rete tramite questo social media: ogni minuto vengono postati su Youtube 72 ore di filmati, troppo per effettuare controlli di tipo “morale” del contenuto. Ma non è solo questo il problema, poiché volendo si potrebbe trovare ad esso una soluzione tecnologica. Il vero problema è che la politica di chi gestisce Youtube è contraria a qualsiasi tipo di limitazione, eccezion fatta per la violazione del diritto d’autore. Un portavoce della compagnia (che non vuole essere nominato) ha dichiarato a Time che Youtube funziona come una piattaforma globale di notizie e di informazione giornalistica. Sono gli individui comuni in tutto il mondo, afferma il portavoce, ad essere i giornalisti: essi denunciano gli abusi dei regimi, documentano violenze delle zone di guerra, informano sui disastri naturali… Impossibile porre limiti a questa funzione, oltre l’inutile indicazione “vietato ai minori”: ogni altra barriera sarebbe controproducente per Youtube, perché il flusso di video troverebbe ospitalità altrove. In un mondo in cui ogni persona munita di uno smart phone può trasformarsi in un video reporter, non sono ipotizzabili né limiti né censure. “E così – conclude il giornalista del Time – la battaglia on line sulla Siria resta altrettanto torbida, moralmente, quanto quella che si combatte nella realtà”.

Il torbido di questa “battaglia on line”, combattuta su Youtube a colpi di video horror, consiste in un fatto inconfutabile: il fatto che milioni di persone possono dare il proprio apprezzamento al filmato cliccando “mi piace”; possono poi scaricarlo, divulgarlo, e farlo apprezzare da altri milioni di persone. Nei primi giorni dopo la pubblicazione, il video di al-Hamad che dissacrava il corpo della sua vittima era stato visto e apprezzato ben 885.000 volte, e duplicati del film sono stati rintracciati ovunque in rete. Non è tanto la brutalità della guerra a rendere moralmente fosca la vicenda del video e di tutti quelli (che sono migliaia) altrettanto orribili che entrambi i contendenti hanno postato in questi due anni.
 
Città devastate in Siria
Le guerre sono sempre brutali: lo storico Omer Bartov (Fronte orientale. Le truppe tedesche e l’imbarbarimento della guerra – 1941-1945, tr. it. Bologna, Il Mulino, 2003) ha documentato a quali livelli di barbarie è giunta la seconda guerra mondiale sul fronte orientale; commentando il libro di Timothy Snyder (Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, tr. it. Milano, Rizzoli, 2011) mi sono occupato in un post del blog (il 3 gennaio di quest’anno) della violenza irrazionale subita dalle inermi popolazioni della Polonia, della Bielorussia, dell’Ucraina e dei Paesi baltici tra 1939 e 1945; noi stessi italiani sappiano cosa è successo tra 1943 e 1945 quando l’esercito tedesco ha iniziato a ritirarsi dalla penisola, quali eccidi efferati hanno compiuto i soldati comuni della Wermacht, oltre ai nazisti; e sappiamo anche cosa è accaduto tra Lazio e Campania dopo lo sfondamento della Linea Gustav nella primavera del 1944, ad opera delle truppe marocchine al seguito degli Alleati. La guerra è barbarie; una guerra civile, dove si sommano alle brutalità belliche gli odi ideologici e quelli razziali, lo è ancor di più.


Ma quel che non è accaduto nel corso della seconda guerra mondiale è che le azioni più efferate ricevessero, in tempo reale, l’apprezzamento “democratico” di un pubblico di milioni di persone: questo è l’aspetto più fosco della vicenda. Al-Hamad può ben dire ai giornali occidentali che lo intervistano di non temere alcun giudizio da parte dei tribunali, poiché su di lui si è già espressa la rete assolvendolo, apprezzandolo, esaltandolo. Il nuovo tribunale della rete decide senza alcun limite cosa è appropriato e cosa non lo è; cosa è moralmente giusto e cosa è esecrabile. In Siria, e altrove in Medio Oriente e nel mondo, in questo momento, per milioni di utenti di Youtube è moralmente legittimo tagliare un dito ad un nemico come souvenir, oppure profanarne il cadavere asportando un organo dal torso. Il web ci rende liberi? Si chiede in un recente libro Gianni Riotta. Molto dipende dai contenuti che sapremo versare in rete, contenuti nuovi, diversi da quelli del passato. Intanto, però, sembra essere il web a versare in noi nuovi significati e nuovi contenuti. La violenza, vecchia come il mondo, conosce oggi una nuova forma di legittimazione: il “mi piace” dei social media. Un voto anonimo di un pubblico anonimo. E così, attraverso un plebiscito digitale, ciò che più ci disumanizza diviene sociale e quindi umano, ahi troppo umano.