sabato 27 luglio 2013

Settantesimo anniversario del 25 luglio 1943: seconda parte

Fine di una dittatura.
Dino Grandi e la seduta del Gran Consiglio del fascismo
(seconda e ultima parte)

Dino Grandi (primo a sx) ambasciatore a Londra

Ecco il piano di Grandi, che egli stesso giudicò “temerario”. Primo: convincere il re a deporre Mussolini, a nominare un primo ministro e un governo del tutto nuovi. Grandi pensava al Maresciallo Caviglia, perché non compromesso con il regime: “Caviglia, – scrisse Grandi nella già citata lunga annotazione di diario che verrà pubblicata nelle sue memorie – nemico personale di Badoglio, è il solo fra i grandi capi militari della prima guerra mondiale che non abbia fornicato col fascismo e dimostrato servilità al Duce”. Secondo: con il nuovo governo gli italiani, raccolti attorno al re, avrebbero dovuto rivolgere le armi contro la Germania: “Se vogliamo riacquistare le nostre libertà – prosegue Grandi - dobbiamo dimostrare agli anglo-americani che siamo pronti a pagare il prezzo, senza attendere che la libertà ci venga regalata dalla sconfitta. Sarebbe questa una libertà pagata a un duro prezzo. E allora? Allora è necessario, è indispensabile, è inevitabile che siamo noi a prendere l’iniziativa di guerra contro la Germania nazista, contro il nostro potente e prepotente alleato. […] Agli anglo-americani non dobbiamo domandare nulla, ma soltanto farli trovare improvvisamente di fronte allo spettacolo di una Italia che si difende colle armi in pugno contro quella che sarà l’inevitabile vendetta della Germania nazista. Come potranno gli Alleati continuare a combattere contro una Nazione che già per conto proprio ha preso a combattere contro il nemico comune, con in testa il suo Re attorno al quale si stringeranno tutti gli Italiani? Non vedo altra via di scampo, se non questa. L’Italia dovrà attraversare un nuovo e forse più doloroso Calvario. Questo sarà il prezzo del suo riscatto. […] questo piano – concludeva G. - è condizionato […] da tre presupposti: il coraggio della Monarchia; l’intelligenza degli Alleati; il patriottismo degli antifascisti. Si verificheranno questi presupposti e queste condizioni? Non lo so. Ma lo spero” (cit. in De Felice, op. cit., p. 1203: per il titolo dell’opera vedere il precedente post).
Mentre Grandi dimostrava con questi propositi di avere grande lucidità, Mussolini sembrava impotente; il re intrappolato nell’indecisione dagli scrupoli giuridici (era preoccupato di muoversi rispettando lo Statuto), dal timore di suscitare reazioni vendicative da parte della Germania, dal suo scetticismo che lo conduceva ad essere malfidato nei confronti di tutti, a non nutrire speranze per alcuna soluzione.
 
Maria Josè di Savoia (1906-2001)
Dopo i tracolli militari dell’Asse in Africa e in Russia, cominciò un vorticoso giro di rapporti tra Ciano, Bottai, Grandi e gli angloamericani, grazie alla mediazione di monsignor Montini e di Maria Josè, la consorte del principe ereditario Umberto. Tra gennaio e luglio 1943, in questi ambienti si sondarono diverse strade per far uscire l’Italia dalla guerra; Mussolini invece puntava sulla chiusura del fronte russo, al fine di potersi concentrare sul Mediterraneo. Solo dalla primavera del 1943 cominciò a prendere in considerazione l’uscita dell’Italia dal conflitto, ma, stando a quel che riferirono le persone a lui più vicine, confessò che gli sarebbe servito tempo per convincerne Hitler. I documenti riservati degli Affari Esteri, analizzati da De Felice, mostrano in effetti un Mussolini preoccupato, ma incapace di decidersi in un senso piuttosto che in un altro, assalito da continui e improvvisi cambiamenti di umore. Di fronte a questa situazione, che sembrava di ora in ora sempre più senza via di uscita, si fece strada l’idea che la soluzione fosse nell’esautorare il duce. Però tutti i personaggi del fascismo coinvolti nel percorso che portò alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio erano sfiduciati sulla possibilità di ottenere questo risultato; inoltre nessuno, eccetto Grandi, aveva chiarezza di idee su cosa occorresse fare poi. Se la seduta del Gran Consiglio ebbe l’esito che ebbe il merito fu di Grandi, “di un uomo cioè – ha scritto De Felice – del quale tutto si può dire salvo che mancasse di idee chiare e di decisione e di quel tanto di spregiudicatezza necessaria a mettere d’accordo e a far procedere insieme una serie di personaggi in gran parte sfiduciati” (R. De Felice, op. cit., p. 1227).
 
Vittorio Emanuele III (1869-1947)

Stando al Diario di Grandi, fu questi a proporre il piano al re in un’udienza riservata avuta con il sovrano il 4 giugno; il re approvò, ma pretese che vi fosse il parere favorevole di un organo costituzionale, come il Parlamento o al più il Gran Consiglio del fascismo: “io sono un re costituzionale […] deve essere il parlamento ad indicarmi la strada”, disse a Grandi nel colloquio. Più scettico invece si mostrò sulla possibilità di rivolgere le armi contro la Germania: egli voleva esautorare Mussolini e poi sottoscrivere una pace separata con gli anglo-americani. Di fronte alle perplessità di Grandi che contestava sia la pretesa di far decidere ad un organo costituzionale, sia la pace che avrebbe suscitato comunque la reazione vendicativa della Germania, il re rispose: “Ella si fidi del suo re e lavori a facilitarmi il compito mobilitando l’Assemblea legislativa e magari il Gran Consiglio come surrogato del Parlamento. […] Si fidi del suo re” (cit. in R. De Felice, op. cit., p. 1237). E chiese a Grandi di mantenere il più assoluto segreto su questo incontro. Grandi nel Diario annota che dopo il colloquio con il re uscì dal Quirinale parzialmente rinfrancato; ma allo stesso tempo preoccupato che il re potesse approfittare di quel silenzio che gli aveva chiesto per tergiversare, per non decidere o per mutare ancora idea (cfr. ibidem nota 1). Comunque tenne per sé il segreto del colloquio e partì per Bologna, dove attese l’evolversi degli eventi.
 
L'incontro di Mussolini e Hitler
nel luglio 1943
Ovviamente la situazione precipitò subito dopo lo sbarco in Sicilia degli anglo-americani: il 18 luglio, infatti, Grandi venne informato che alcuni gerarchi del fascismo avevano chiesto un’urgente convocazione del Gran Consiglio, perciò tornò a Roma. Mussolini il 19 ebbe un incontro inconcludente con Hitler a Feltre: vi era andato per ottenere lo sganciamento dell’Italia dalla Germania, così almeno raccontò il generale Ambrosio presente al meeting, ma Mussolini non riuscì neppure a prospettare la cosa a Hitler. I partecipanti raccontano di un Mussolini ammutolito dall’apprendere che proprio in quel giorno Roma veniva pesantemente bombardata dagli Alleati. Fatto sta che perse un’occasione storica per porre fine alle sofferenze dell’Italia. Poi il 22 accettò di convocare il Gran Consiglio per il 24 luglio alle ore 17. Si è molto discusso in sede storiografica sul perché Mussolini abbia accettato di firmare la convocazione, se fosse o meno consapevole dei rischi che stavano correndo lui e il fascismo. Tanto più che alcune fonti fanno pensare che conoscesse il contenuto dell’odg che Grandi avrebbe presentato (lo dice, ad esempio, Grandi stesso nel suo Diario). Perché allora convocarlo? Perché non dare ascolto a chi lo metteva in guardia e cercava di dissuaderlo dall’accettare l’incontro (cercarono di fargli cambiare idea Suardo, presidente del Senato, Farinacci, Cianetti, la stessa moglie Rachele)?
Il pesante bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma, il 19 luglio 1943
La risposta sta forse nel fatto che M. non attribuiva grande importanza al Consiglio (che aveva anche un profilo istituzionale molto impreciso, organo più consultivo che deliberativo), e che anzi la riunione per lui sarebbe servita per dare soddisfazione ai richiedenti e tacitare i più irrequieti, per “guardarli negli occhi e metterli in riga”, come disse alla moglie. E a Suardo, che poco prima della seduta cercò di metterlo in guardia, disse: “voi siete catastrofico, Suardo, sarà una riunione informativa” (cit. in R. De Felice, op. cit., pp. 1347-1348). Che non prevedesse una seduta lunga e accalorata lo dimostra il fatto che alla sua segreteria particolare lasciò l’ordine di mettere in calendario, per la serata, la solita udienza con Ambrosio (Capo di Stato Maggiore Generale) per fare il punto sulla situazione militare. Del resto nei giorni tra il 19 e il 25 il re non aveva preso decisioni significative: il 22 Vittorio Emanuele III aveva avuto un incontro con Mussolini, ma non gli aveva comunicato nulla di significativo. Piuttosto fu il duce a chiedere al sovrano due mesi di tempo prima di prendere decisioni radicali (di cosa parlava? Di una pace separata? Di uno sganciamento dalla Germania?) e il re glieli concesse: cosa che spiega come mai Mussolini si fidasse del sovrano e non temesse le deliberazioni del Gran Consiglio; cosa che spiega anche come mai si sarebbe di nuovo recato tranquillamente da Vittorio Emanuele dopo la seduta del Gran Consiglio.
 
Pagina del verbale della seduta del GC del fascismo
con l'odg Grandi (ringrazio per le immagini
dei documenti il sito instoria.it)
La riunione fu convocata ufficialmente per discutere la gravissima situazione militare. Essa cominciò, alle 17 del 24 luglio 1943 (la ricostruzione dei complessi retroscena che portarono al 25 luglio è in R. De Felice, op. cit., pp. 1246-1362; la narrazione della seduta è alle pp. 1362-1383), con la relazione introduttiva di Mussolini che affermò la necessità di rispettare il patto con la Germania; seguì la presentazione delle mozioni. Quella di Grandi chiedeva il ripristino delle funzioni statali e del normale ordine costituzionale, con la consegna al re del comando delle Forze Armate, come stabiliva l’art. 5 dello Statuto che assegnava al sovrano questo potere. Farinacci presentò una mozione che egli descrisse come alternativa a quella di Grandi, ma che nella sostanza diceva le stesse cose: ripristino dei poteri del re. Infine Carlo Scorza presentò un odg di sostegno a Mussolini.

Le firme dei membri del GC in calce al verbale
La discussione che seguì fu surreale: Mussolini si difese, anche con forza, senza rinunciare alla sua abilità dialettica (disse ad un certo punto, quasi a voler rivolgere un ricatto ai gerarchi: “Signori, attenzione! L’odg Grandi può porre in gioco l’esistenza del regime. Signori, vi siete prospettata questa ipotesi?”), ma nel complesso lasciò che gli umori dei gerarchi si sfogassero, sicuro di avere dalla sua parte re ed esercito. La maggioranza dei membri parlò a favore dell’odg Grandi, giustificando la scelta come un favore verso Mussolini, poiché così lo si sarebbe sgravato delle difficili decisioni che si sarebbero dovute assumere e si metteva la patata bollente nelle mani della monarchia. Grandi stesso presentò la propria iniziativa come un modo per tirar fuori il duce dai pasticci, anzi lo elogiò per tutto quel che aveva fatto fino a quel momento. Nessuno, a parte Grandi, sembrava rendersi conto di quanto gravi sarebbero state le conseguenze di quell’odg. Fu Mussolini stesso a volere che si votasse per primo l’odg di Grandi: erano ormai le due e mezzo della notte. La votazione diede 19 voti favorevoli (tra i quali, oltre a Grandi, i più noti furono Giuseppe Bottai, Cesare Maria De Vecchi, Galeazzo Ciano, Luigi Federzoni, Giacomo Acerbo, Dino Alfieri, Emilio De Bono, Edmondo Rossoni), 8 contrari (tra cui Carlo Scorza, Farinacci, Buffarini-Guidi), 1 astenuto (Giacomo Suardo). A quel punto Mussolini ritenne che fosse superfluo votare gli altri due odg, sicché, alle 2.40 del 25 luglio, dichiarò conclusa la seduta.

Il proclama di Badoglio
Il Corriere della sera del 26 luglio 1943
La giornata del 25 luglio passò senza che trapelasse alcuna notizia. Alle 16 Mussolini, come ho già detto, si recò dal re con in mano l’esito della votazione e la legge istitutiva del Gran Consiglio, la quale stabiliva che tale organo era solo consultivo. Ma il re stavolta fu risoluto: gli comunicò di averlo sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio e subito dopo lo fece arrestare. Solo alle 22.45 fu data la notizia, con comunicato ufficiale, cui seguì il famoso discorso radiofonico di Badoglio, nel quale il maresciallo diceva: “la guerra continua a fianco dell’alleato germanico”. Dopo la costituzione della Rsi, furono condannati a morte tutti i membri del Gran Consiglio che avevano votato l’odg Grandi, tranne Tullio Cianetti che il giorno successivo alla fatale seduta aveva scritto a Mussolini per ritrattare il suo voto (Cianetti fu condannato a 30 anni di reclusione). Ben 13 dei votanti si erano messi in salvo per lo più espatriando, sicché il processo di Verona che comminò le pene (gennaio 1944) emise le sentenze in contumacia. La pena capitale venne eseguita solo per 5 persone: Ciano, De Bono, Giovanni Marinelli, Carluccio Pareschi, Luciano Gottardi. Grandi si era messo in salvo in Spagna già all’inizio di agosto, poi si trasferì in Portogallo dove visse fino al 1948. Tornò in Italia negli anni Sessanta per aprire una fattoria nei pressi di Modena. Morirà a 93 anni, nel 1988.


Lo storico evento del 25 luglio aveva finalmente messo fine al regime fascista, ma non aveva sfilato l’Italia dalla guerra contro gli anglo-americani, come sperato da Grandi. Altre tragedie sarebbero occorse alla nazione fino al termine del conflitto, a cominciare da quell’8 settembre (l’armistizio), di cui, sempre quest’anno, ricorre il settantesimo anniversario. Di quest’altra data, importante e tragica, della storia d’Italia scriverò a suo tempo. Intanto vorrei concludere quanto abbiamo visto in questi due post dedicati al 25 luglio e a Grandi. Il piano architettato da questi era realistico e irrealistico allo stesso tempo, come ha scritto De Felice. Era realistico dal punto di vista politico, poiché l’unico modo per evitare le conseguenze della “resa incondizionata” era quello di capovolgere la situazione, rompendo l’alleanza con la Germania e schierando un’Italia in armi dalla parte degli Alleati. Sono molti i documenti che attestano come vi fosse, sia da parte americana sia da parte inglese, non solo la volontà di applicare all’Italia il principio della resa con “una certa elasticità” (parole di Churchill), qualora il re avesse deciso di schierarsi con l’Alleanza; ma anche una certa aspettativa sul fatto che l’Italia fosse sul punto di compiere questo passo. Era un piano temerario, come riconobbe Churchill nel 1950 (cfr. R. De Felice, op. cit., pp. 1203-1204), ma il solo che “poteva essere tentato”.
Il Processo di Verona. Da sx: De Bono (con le mani sul viso), Pareschi, Ciano, Gottardi, Marinelli, Cianetti


Era irrealistico, invece, sul piano militare: con quali forze concrete operare quel capovolgimento? Era assurdo pensare che l’esercito fosse pronto a compiere questa pericolosa azione, “nello stato d’animo di scoramento e di stanchezza che ormai caratterizzava larga parte della truppa e ancor più degli ufficiali e dopo due anni e più di guerra bene o male combattuta al fianco dei tedeschi” (R. De Felice, op. cit., p. 1203). Che potesse venire dalla società stessa, dai civili una reazione orgogliosa e massiccia era altrettanto impensabile: la popolazione era stremata dalla guerra e soprattutto sbandata, lasciata a se stessa, senza guida politica alcuna. Non c’era un De Gaulle, in Italia, capace di mobilitare l’intera nazione, al di là delle appartenenze ideologiche, contro il fascismo. Di lì a qualche settimana, inoltre, la penisola sarebbe stata spaccata in due dalla doppia occupazione: i tedeschi al centro-nord, fino alla linea Gustav (Termoli-Gaeta); al sud di Cassino gli Alleati, che risalirono l’Italia con lentezza ed estrema fatica. A chi rivolgersi, allora, per realizzare il “piano temerario” anche dal punto di vista militare? Veniamo qui alla “piccola parte di verità” cui accennavo all’inizio del precedente post: la Resistenza. Essa sorse nel nord Italia solo dopo l’armistizio (8 settembre), non prima. Gli uomini che vi presero parte furono degli eroi, ai quali va tributato il massimo onore: essi decisero di immolarsi combattendo per la libertà della patria, sognando un mondo migliore e più giusto. Tuttavia furono pochi. Non un popolo in armi, non una rivoluzione civile capace di coinvolgere le masse, come accadde altrove (in Francia, in Jugoslavia, in Cina). Fu un movimento molto, molto minoritario il cui peso militare non era neppure determinabile nell’estate del 1943. Solo in seguito, verso la fine del 1944, sarebbe stato di un certo rilievo: ma mai in grado, da solo, di scacciare dall’intera penisola gli occupatori nazisti e i loro alleati della Rsi.


Questo è appunto il problematico avvio della nostra storia repubblicana: gli italiani, fino a qualche anno prima soggiogati dalla dittatura o convinti sostenitori di essa, nel turbine degli eventi del 1943 reagirono in massa con timore, rassegnazione, egoismo; molti si limitarono a non fare nulla, restarono alla finestra in attesa degli eventi, cercando di mettersi disperatamente in salvo (il “tutti a casa” di Alberto Sordi, ricordiamo?). Costituirono quella “lunga zona grigia” di cui parla De Felice nell’ultimo volume della sua opera, nonché nel libro intervista Rosso e nero (a cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini&Castoldi, 1995). Solo pochi, pochissimi presero una decisione coraggiosa: da un lato i partigiani (che si schierarono dalla parte giusta), dall’altra i volontari “repubblichini” (che scelsero la causa sbagliata, ma scelsero). Troppo pochi i primi per rendere pienamente realistico il piano di Grandi. Troppi i secondi per evitare la guerra civile: che infatti vi fu.


Resta da valutare la figura di Grandi. Un uomo dalle mille contraddizioni, non c’è dubbio. Ma ebbe la forza di pensare con la propria testa in un momento tragico per la nazione, un momento in cui quasi tutti gli altri attori importanti persero la testa o non la usarono con lucidità. Mancò a Grandi, semmai, la capacità (e forse anche la volontà) di tradurre il pensiero in azione: si mise in salvo, anche lui, quando avrebbe potuto impugnare le armi. Si comportò, insomma, come la maggioranza degli italiani. Peccato. come Mussolini a Feltre, Grandi mancò l’appuntamento con la svolta storica che, pure, egli stesso aveva contribuito a creare. (2-fine)

giovedì 25 luglio 2013

Settantesimo anniversario del 25 luglio 1943

Fine di una dittatura.
Dino Grandi e la seduta del Gran Consiglio del fascismo
(prima parte)

La seduta del 24-25 luglio 1943 del Gran Consiglio del fascismo

Oggi è il 70° anniversario della seduta del Gran Consiglio del fascismo che depose Mussolini e pose fine alla dittatura. Per questo dedicherò due post ad uno degli avvenimenti più importanti della nostra storia contemporanea. Negli anni Sessanta e Settanta schiere di giovani studenti sono stati indottrinati, insegnando loro che il fascismo è caduto grazie alla lotta del popolo guidata dai partigiani. Una rivoluzione, quindi, avrebbe sconfitto e abbattuto il regime, poiché, come si spiegava allora nei licei, il popolo italiano era del tutto avverso al fascismo, e aveva subito la dittatura per vent’anni senza mai accettarla, piegando la testa per necessità davanti alla spietata violenza del regime.

Lo storico Renzo De Felice (1929-1996)

Era questa la cosiddetta “vulgata dell’antifascismo” che conteneva solo una piccola parte di verità, come vedremo al termine di queste due puntate. Oggi questa “verità convenzionale” è stata messa in discussione e, contro essa, è stata fatta valere la forza inoppugnabile dei fatti. Merito principale di questa operazione (che alcuni hanno voluto chiamare, spregiativamente, “revisionista”) va a Renzo De Felice e alla sua monumentale biografia su Mussolini (vedi nota 1), pubblicata tra gli anni Sessanta (in un’epoca in cui il clima politico gli era fortemente avverso) e i Novanta (quando ormai anche i suoi più irriducibili nemici, come Nicola Tranfaglia, cominciavano ad ammettere la fondatezza degli argomenti di De Felice). Su di essa baserò la narrazione che segue, in specie sul volume IV-1, intitolato Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra (1940-1943), e in modo particolare sul secondo tomo di questo, a cui De Felice attribuì il significativo titolo Crisi e agonia del regime (Torino, Einaudi, 1996).



Non mi soffermerò, quindi, sullo sbarco degli Alleati in Sicilia (10 luglio 1943), evento al quale si deve la crisi conclusiva del fascismo: non tanto perché non si tratti di questione importante, poiché lo è, dal momento che da esso arrivò in effetti la fine della dittatura. Non lo tratterò, perché oggi ricordiamo il 25 luglio 1943, quando Mussolini venne deposto, avvenimento che fu senz’altro provocato dallo sbarco alleato, ma che ebbe comunque una sua dinamica autonoma, un suo perché e un suo come. È su questi aspetti che mi soffermerò, a cominciare dall’uomo che tramò contro il duce: Dino Grandi.





Il piano alleato per lo sbarco in Sicilia (operazione Husky)


Com’è noto, infatti, la deposizione del dittatore si dovette alla votazione, da parte della maggioranza dei membri del Gran Consiglio, dell’ordine del giorno Grandi. Perciò il personaggio e le motivazioni che lo spinsero a quel passo costituiscono fonte di interesse per lo storico che voglia capire come si arrivò al voto del fatidico giorno.
La vicenda personale di Dino Grandi (1895-1988) è inoltre utile per comprendere quella peculiarità del fascismo che la Arendt definì “totalitarismo imperfetto”. Uomini come Grandi, infatti, erano ben lontani dall’essere succubi devoti al leader; egli, come altri fascisti del resto, covò contro Mussolini un sordo ma motivato dissenso, il quale era aumentato mano a mano che l’edificio della dittatura era stato portato a termine.





Dino Grandi (1895-1988)

Alla vigilia della prima guerra mondiale, Grandi (avvocato di professione) fu vicino al Psi: così conobbe Mussolini, che era ancora su posizioni socialiste-rivoluzionarie, con cui approfondì l’amicizia negli anni dell’interventismo. Dopo la guerra, a cui partecipò, Grandi aderì al fascismo, anzi fu tra i fondatori dei fasci emiliani tra il 1920 e il 1921, molto vicino alle posizioni dello squadrismo più facinoroso: nel giugno 1921 guidò l’assalto al circolo socialista “Andrea Costa” di Imola; l’anno dopo guidò 2000 camicie nere all’occupazione di Ravenna. Il suo prestigio crebbe così tanto all’interno del movimento fascista che prima del congresso del Pnf del novembre 1921, tenuto a Roma, egli fu il potenziale avversario e sostituto di Mussolini alla guida del partito. Suo punto di forza, in quel momento, era l’avversione al progetto di Mussolini di realizzare un patto di pacificazione e collaborazione con i socialisti. Nel corso del congresso di Roma, Grandi accettò la subordinazione al capo in cambio della cancellazione di questa proposta.


Grandi ambasciatore a Londra: qui
con il segretario di Stato britannico
John Simon

Malgrado l’impetuoso avvio, con il tempo Grandi divenne l’anima moderata del fascismo, insieme a Bottai, Balbo e Federzoni; mentre Starace, Farinacci e De Bono ne rappresentarono l’anima più populista e manesca. E infatti dopo il 1922 Grandi ricoprì incarichi nei quali servivano moderazione, diplomazia, buone maniere: sottosegretario all’interno e agli esteri dal 1924 al 1929, ministro degli esteri dal 1929 al 1932, ambasciatore a Londra dal ’32 al ’39, successivamente ministro della giustizia e infine presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni. La rete consolare da lui creata, capillare ed efficiente, è ancora in parte esistente, inoltre lo spirito con cui svolse l’incarico di ministro degli esteri fu di moderazione e di collaborazione con le altre nazioni. In tal modo contribuì non solo ad accrescere il prestigio internazionale dell’Italia, ma soprattutto a rendere affidabile la politica estera italiana, malgrado i proclami aggressivi del duce. Nelle relazioni con Francia e Inghilterra lasciò persino trapelare che l’Italia sarebbe stata disponibile a discutere del disarmo. Fu questo che obbligò Mussolini a prestare attenzione al comportamento del suo ministro degli esteri, del quale temeva il prestigio, come in passato ne aveva temuto la reputazione all’interno del partito. Sicché lo rimosse dal ministero e lo spedì a Londra: promoveatur ut amoveatur. Qui, come ambasciatore, cercò di convincere la classe dirigente britannica ad avvicinarsi all’Italia e a prendere in considerazione una possibile alleanza. Trovò udienza in Churchill, allora ancora ben disposto verso il fascismo, ma quando Mussolini sottoscrisse l’Asse (1936) la sua iniziativa venne stroncata.
Achille Starace (1889-1945)
Rimase sempre un po’ distaccato e in conflitto con la classe dirigente fascista che egli reputava provinciale, poco raffinata, populista e un po’ ruffiana: egli amava invece l’indipendenza di giudizio e la raffinatezza dei modi, vantava amicizie altolocate all’estero (solo Ciano, divenuto ministro degli esteri nel 1936, poteva vantare uguali relazioni), simpatie all’interno della monarchia (Vittorio Emanuele III lo nominò conte di Mordano e gli conferì anche il Collare dell’Annunziata, con la conseguenza di diventare “cugino del re”). In particolare Grandi detestava personaggi come Achille Starace (nominato segretario del Pnf nel 1931), ideatore delle più goffe campagne propagandistiche del regime (l’italianizzazione dei cognomi, il saluto romano a 170°; il “voi” al posto del “lei”, l’obbligatorietà della divisa il sabato – il sabato fascista, le manifestazioni ginniche con il salto nel cerchio di fuoco, l’uso di espressioni liturgiche come “granitico blocco”, “adunate oceaniche”, le scritte con slogan fascisti sulle facciate delle case, l’uso dell’orbace…). Di Starace, Grandi diceva che era il prototipo dello “stupido in orbace”, in fondo non cattivo, ma un “pover’ uomo”. Rappresentava l’idiota obbediente, devoto al duce fino a diventare ridicolo. Alle perfidie di Grandi, una volta pare che Mussolini abbia risposto: “è vero, Starace è un cretino, ma è obbediente”. Mentre Grandi era spesso insubordinato. In effetti pare avere confidato a Ciano, nel 1942: “Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista per vent’anni”.
 
Galeazzo Ciano (1903-1944), genero di
Mussolini, più volte ambasciatore
e ministro

Per Grandi fedeltà non era sinonimo di obbedienza: “non ho mai considerato Mussolini – scrisse nelle sue memorie– come un essere cui mi sentivo legato da obblighi di fedeltà personale e cieca […]. Non è stato per me, mai, altro che uno strumento di bene, o di male, per il paese. È al paese, non a lui, cui sentivo il dovere di essere fedele” (D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 381, cit. in R. De Felice, op. cit., p. 1230). Sicché assunse sempre posizioni decise autonomamente e solo in qualche caso coincidenti con quelle di Mussolini e del fascismo. Dall’epoca del suo impegno come ambasciatore a Londra, cominciò a ritenere il fascismo un fenomeno transitorio, manifestò scarso interesse per le fumisterie ideologiche, a cominciare dal corporativismo, prese ad ammirare l’Inghilterra, cominciò a non scoprirsi troppo, a rimanere appartato il più possibile a non confondersi con gli altri gerarchi: cose che non lo rendevano simpatico. Ciano era invidioso di lui e delle sue entrature internazionali; Bottai gli rimproverava di non sbilanciarsi mai e di essere aristocratico e anglofilo; Farinacci di essere un doppiogiochista; Mussolini di non essere obbediente e di essere poco affidabile come fascista. Con alcuni di costoro, ad esempio Bottai e Ciano, entrò in sintonia dopo lo scoppio della guerra, perché come lui diventarono contrari alla partecipazione italiana al conflitto.
 
Giuseppe Bottai (1895-1959), anche lui
più volte ministro
Tutto ciò è importante per capire il comportamento di Grandi dal 1942 al 1943. Nel ’42, appunto, confidò a Ciano e a Bottai che occorreva scindere il fascismo, ma soprattutto l’Italia, dalla figura del duce e dagli errori del regime. Secondo lui, occorreva riconoscere il fallimento della dittatura, e quindi effettuare un vero e proprio “suicidio” per salvare la nazione. Scrisse nel suo diario un paio di mesi prima del 25 luglio: “Siamo noi che, indipendentemente dal nemico, dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. […] Mussolini, la dittatura, il fascismo devono sacrificarsi, cedere il posto ad una nuova classe dirigente. Debbono ‘suicidarsi’ dimostrando con questo sacrificio il loro amore per la Nazione” (cit. in R. De Felice, op. cit., 1201). Grandi sapeva che gli anglo-americani, avendo stabilito a Casablanca, nel gennaio 1943, il principio della “resa incondizionata”, non sarebbero stati clementi con l’Italia, ma nelle loro dichiarazioni ufficiali gli Alleati dicevano di non essere nemici del popolo italiano, bensì solo della dittatura fascista. “Questa, si capisce, è mera propaganda di guerra – annotò alla data del 20 maggio ’43 – […]. Ma noi dobbiamo fare finta di credere ai discorsi di Churchill e di Roosevelt ed operare noi, da soli, come atto di volontà nostra, il chirurgico distacco del regime di dittatura dalla Nazione”. Grandi era consapevole delle difficoltà che un simile progetto avrebbe incontrato, e infatti, proseguendo la sua lunga annotazione, scrisse: “Come può in pratica avvenire tutto ciò? Mussolini non cederà mai il suo posto di comando”. Perciò occorreva un piano, magari temerario ma inevitabile, se si voleva salvare l’Italia. Il piano e la sua realizzazione saranno l’argomento del prossimo post. (1-continua)


1) La biografia di De Felice su Mussolini si compone dei seguenti volumi, tutti editi da Einaudi: vol. I: Mussolini il rivoluzionario (1883-1920); vol. II: Mussolini il Fascista, suddiviso in: vol. II-1: La conquista del potere (1921-1925), vol. II-2: L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929); vol. III: Mussolini il duce, suddiviso in: vol. III-1: Gli anni del consenso 1929-1936, vol. III-2: Lo Stato totalitario 1936-1940; vol. IV: Mussolini l’alleato, suddiviso in: vol. IV-1: L’Italia in guerra 1940-1943 (diviso, a sua volta, in due tomi: Dalla guerra breve alla guerra lunga; Crisi e agonia del regime); vol. IV-2: La guerra civile 1943-1945. Il primo volume fu pubblicato nel 1965, l’ultimo, postumo, nel 1997.


L'ultimo volume della biografia defeliciana
su Mussolini: pubblicato postumo,
si intitola La guerra civile 1943-1945



martedì 23 luglio 2013

Le origini della nostra crisi: seconda parte

I due volti della globalizzazione: crisi in Occidente, sviluppo in Oriente.
(Seconda e ultima parte)


Le bandiere dei 5 BRICS


Dal 1945 alla fine del Novecento abbiamo conosciuto un secondo periodo di convergenza e globalizzazione, caratterizzato dai seguenti aspetti:
1) forte integrazione dei mercati capitalisti, specie di quello europeo con quello nordamericano;
2) esclusione da questa integrazione del mercato dell’Europa orientale, a causa dell’auto-isolamento imposto dal comunismo a questa regione dal dopoguerra fino al 1991;
3) parziale subordinazione al commercio globale dei paesi del Terzo mondo, utilizzati come produttori di materie prime (combustibili fossili, soprattutto) e di derrate alimentari (grano, carne), acquistati ai prezzi imposti dal più forte mercato capitalista: a lungo andare questa condizione di inferiorità si ribalterà in occasione di crescita per alcuni paesi, i futuri Brics (vedere punto 6);
4) ripresa e sviluppo dell’Europa occidentale, che ha cominciato a creare istituzioni federali per tutelarsi dalla concorrenza americana e dal rischio di ricadute nel nazionalismo aggressivo;
5) integrazione molto intensa dei mercati finanziari grazie all’uso della telematica: la finanza globale ha così assunto, a partire dagli ultimi due-tre decenni del Novecento, un ruolo preponderante rispetto agli altri settori economici, diventando una sorta di economia a sé stante, capace, per giunta, di esprimere un proprio potere politico, in grado di condizionare le scelte dei governi nazionali;
I BRICS
6) infine, uscita dall’arretratezza di alcuni paesi un tempo esclusi o subordinati, grazie alla ricchezza accumulata attraverso il commercio globale: il decollo di questi territori (paesi produttori di petrolio, di gas, di generi alimentari, ma anche di tecnologia, come nel caso dell’India e della Cina) è un fenomeno iniziato solo negli ultimi due decenni del secolo scorso.

Il simbolo del WTO

Questa seconda globalizzazione porta con sé, come accaduto già con la prima, aspetti positivi e negativi. Innanzitutto essa, essendo più estesa e più profonda della precedente, tende ad espropriare i governi nazionali della loro sovranità. Non a caso, per evitare di lasciare il mercato mondiale in balia dell’influenza anonima del potere finanziario, sono sorte o sono state rafforzate istituzioni internazionali come l’Onu, ma anche come il WTO, la World Bank, il FMI, l’Ocse: la loro funzione, malgrado le critiche mossegli di essere prone ai poteri forti delle banche e delle multinazionali, è, all’opposto, proprio quella di ripristinare i luoghi della decisione politica, che la globalizzazione tende ad esautorare. In secondo luogo, la potente spinta verso l’integrazione di capitali, merci, persone, cultura tende ad omologare stili di consumo e di vita, producendo simboli, comportamenti e idee uniformi, o tendenzialmente tali, in ogni attività umana. In terzo luogo, le conflittualità non vengono meno, malgrado questa spinta omologante: come mise in luce alcuni anni fa un altro studioso del fenomeno (Ian Clark, Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, (1997), tr. it. Bologna, Il Mulino, 2001), ogni ondata di convergenza e di integrazione suscita spinte e reazioni contrarie che, a loro volta, cercano di governare, adattare, smussare o addirittura contrastare l’uniformità, difendendo le specificità culturali, le differenze, persino le diseguaglianze. Da questo punto di vista, la globalizzazione non ha inventato nulla di nuovo: già la prima rivoluzione industriale suscitò avversioni e resistenze alla tendenza, insita in quella “grande trasformazione”, a convertire ogni aspetto della vita in merce (è questo il cosiddetto fenomeno che Polany chiamò del “doppio movimento”: cfr. Karl Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, (1944), tr. it. Torino, Einaudi, 1974).

D’altro canto, questa seconda globalizzazione, grazie alla liberalizzazione dei mercati, ha consentito a nazioni arretrate di farsi avanti, di progredire, di emergere fino a riuscire a sfidare le potenze economiche dell’Occidente, Stati Uniti e Europa. Oggi i paesi che investono di più all’estero, acquisendo aziende in tutti i continenti, sono Cina, India e Brasile. Se nel 2000 tra le prime 30 aziende multinazionali al mondo non ve n’era nessuna appartenente ai paesi emergenti, oggi ve ne sono ben 7, di cui tre cinesi (cfr. la classifica predisposta dal “Centro Nuovo Modello di Sviluppo”). In particolare, la Cina è la più combattiva e intraprendente: secondo il “Boston Consulting Group”, società di consulenza tra le più importanti al mondo, nell’anno corrente tra le 100 compagnie di paesi emergenti che stanno per diventare multinazionali, ben 41 sono cinesi (cfr. Tra i big delle multinazionali 41 cinesi, in agichina24.it). Sono aziende che producono in ogni campo, dal tessile al petrolifero, dall’automobilistico all’alimentare. Ancora: se negli anni Novanta del Novecento tra le 100 economie più sviluppate al mondo compariva solo la Cina tra i paesi emergenti, e in posizione molto arretrata, oggi non solo i cinesi si collocano al secondo posto, ma troviamo il Brasile al settimo posto, l’India al nono, la Russia al decimo (cfr. Francesco Spini, Chi sono i Brics motori del mondo, La Stampa, 25 marzo 2013). Tra il 2000 e il 2010 le economie dei Brics sono cresciute ad una media annua dell’8,1%, mentre persino gli Usa sono progrediti lentamente, solo dell’1,6% annuo, e l’area euro di un misero 1,2% (ibidem). Secondo le elaborazioni di Goldman Sachs, entro il 2020 i Brics cresceranno mediamente del 6,6%, malgrado un prevedibile rallentamento della Cina (ibidem). A Durban, nel corso del vertice internazionale sulla collaborazione tra Brics e Africa tenutosi nel marzo scorso, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa hanno sottoscritto l’accordo per la fondazione di una Banca internazionale che servirà a finanziare esclusivamente i paesi emergenti che si assoceranno ad essa: una “banca dei Brics”, destinata a diventare il primo colosso finanziario al mondo (cfr. Al vertice di Durban i Brics lanciano la banca di sviluppo comune, in Euronews, 27 marzo 2013).

I 5 capi di governo BRICS durante il summit di Durban, marzo 2013

Lo sviluppo dei Brics, provocato dalla globalizzazione e dal libero scambio, mette l’intero mondo di fronte ad una novità assoluta: lo spostamento massiccio della ricchezza dalle mani dell’Occidente a quelle dell’Oriente e dell’America meridionale. Questa dislocazione della forza economica inevitabilmente sottrae privilegi e benessere all’Europa e agli Stati Uniti, poiché la sfida portata dai paesi emergenti è in sostanza basata sulla produzione di merci a bassissimo costo, condizione che l’Occidente non può sopportare: nei paesi di questa parte del mondo non solo il lavoro è caro, ma tutto ha un costo salato, a cominciare dal welfare state per arrivare alla tutela dei diritti e dell’ambiente. Perciò le aziende europee e americane dei tessuti, del cibo, della meccanica, ed anche della tecnologia, entrano in crisi e devono scegliere tra delocalizzazione o fallimento. Perciò gli stati occidentali stanno tagliando sempre più le spese e ridimensionando le politiche assistenziali: non possono più spremere tasse dalla società, poiché questa si è impoverita sotto la pressione della concorrenza dei Brics. Il cambiamento epocale cui stiamo assistendo per ora riguarda l’economia e la società, ma non tarderà a manifestarsi anche nel campo dei rapporti di forza politici: chi non ama l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, ora può festeggiare, perché nel futuro le scelte politiche più importanti saranno sempre meno condizionate da Washington e da Londra, e sempre più da Pechino, da Nuova Delhi e da Mosca.
Arriviamo a questo punto alla questione da cui siamo partiti: anche risolvendo i nostri problemi di debito pubblico, anche abbattendo drasticamente il carico fiscale su famiglie e lavoro, anche riducendo al minimo il nostro welfare, o eliminandolo del tutto, ed anche sopprimendo completamente i costi delle inefficienze, politica compresa, rimarrebbe comunque il problema di fondo della globalizzazione. In che modo l’Italia potrà far fronte alla concorrenza di giganti come la Cina e l’India, dove vi è un mercato interno di centinaia di milioni di esseri umani, dove la forza lavoro è abbondante e a buon mercato, dove il desiderio di riscatto (unito ad una malcelata volontà di rivalsa verso l’Occidente) è avvertito da tutta la popolazione, dai più giovani ai più anziani? In che modo potremo sconfiggere la marea montante di un’inarrestabile integrazione delle economie mondiali, la quale premierà chi saprà vendere di più, approfittando delle libere frontiere e dell’eliminazione delle dogane, dei divieti e dei dazi? Qualcuno sostiene che ci salveremo uscendo dall’euro e scegliendo il protezionismo. Mi chiedo ancora: quanto potremmo resistere in questo caso? Isolati economicamente e senza la copertura offerta dalla solidità di una valuta forte? Dovremmo sperare in due eventi: che tutti gli altri paesi adottino politiche isolazioniste e protezioniste; che si ricorra alla “politica di potenza”, quindi alla guerra, per conquistare risorse e mercati. Insomma, che si ripresenti un’altra epoca di de-globalizzazione e divergenza, con tanto di conflitti inter-statali, di colonialismo e di catastrofi belliche. In un simile contesto, dove la parola sarebbe lasciata alla forza bruta, tutto potrebbe accadere e anche i paesi più deboli avrebbero una chance.



Attenzione a quel che si dice e che si fa quando si tuona contro la globalizzazione. Questo fenomeno porta con sé molti aspetti negativi, come ho detto. Uno di questi è sicuramente l’emarginazione di paesi come il nostro, incapaci di reggere la sfida a causa delle dimensioni territoriali, della carenza di risorse ed anche delle errate decisioni politiche. Ma il contrario della globalizzazione, mi sia consentito dirlo, è uno scenario decisamente peggiore: protezionismo, contrapposizione politico-militare, rifiuto del dialogo e della collaborazione, opposizione nei confronti di tutte le organizzazioni internazionali. Non me lo augurerei, non lo augurerei ai nostri figli. Chi lo auspica è un profeta di sciagure.

Quel che dovremmo cominciare ad accettare, invece, è il radicale spostamento di potenza economico-politica che si sta verificando, accogliendo l’idea che i nostri consumi dovranno essere ridimensionati, almeno temporaneamente, e con essi i privilegi di cui l’Occidente ha goduto per molti decenni. Questo nuovo scenario non significa rinunciare completamente al ruolo storico di “culla della civiltà” di cui il mondo occidentale è andato giustamente fiero. Al contrario, si tratta di recuperare questa funzione nel senso più vero ed originario: l’Occidente deve usare la propria cultura per convincere i nuovi padroni a sobbarcarsi la loro parte di oneri, a riconoscere diritti alle loro popolazioni, ad abbracciare l’idea e la prassi della libertà, ad ammettere che le relazioni fra gli stati devono essere ispirate al dialogo e alla collaborazione. Insomma, il nostro mercato potrebbe essere invaso da merci cinesi, ma se sapremo essere orgogliosi della nostra tradizione liberale potremmo conquistare il cuore dei nuovi signori della terra: “Graecia capta, ferum victorem cepit…”. Se saprà svolgere questo compito, l’Occidente potrebbe recuperare anche una parte di quella ricchezza che oggi sembra irrimediabilmente perduta. In caso contrario, potremmo diventare una turbolenta periferia dei nuovi imperi partoriti dalla globalizzazione. (2-fine)


lunedì 22 luglio 2013

Le origini della nostra crisi: una prospettiva storica

I due volti della globalizzazione: crisi in Occidente, sviluppo in Oriente.
(Prima parte)



La crisi che stiamo attraversando in Italia non è solo economica, non è solo finanziaria, e non è causata solo dalla pochezza dei nostri leader e dai limiti della nostra democrazia. Non è neppure soltanto una crisi italiana, ma condivisa da tutto l’Occidente, sia pure con intensità diversa e con differenti capacità di reazione ad essa. Anzi, a costo di apparire catastrofista, voglio aggiungere che si tratta di una crisi mondiale a cui non è sfuggito alcun paese, neppure i colossi dell’economia occidentale, come gli Stati Uniti o la Germania; neppure le nuove potenze economiche, quelle indicate dagli esperti con l’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Anche questi paesi stanno vivendo problemi simili ai nostri: calo degli investimenti, ritiro di capitali stranieri, aumento della disoccupazione, incremento del debito sovrano, contabilità dello Stato in disordine, rischio di aumento del malcontento e della conflittualità sociale. Quando una crisi è così ampiamente diffusa e condivisa, le cause vanno ricercate oltre il proprio giardino di casa, occorre spingere lo sguardo al di là del proprio naso e sollevarsi al di sopra delle beghe nazionali. Come insegnava Hegel, per cogliere l’universale e comprendere l’insieme, occorre purificare la coscienza dal particolare: “il vero è l’intero”. Qualche volta la filosofia hegeliana torna utile.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

Jeffrey G. Williamson (1935),
 professore emerito di Economia
nell'Università del Wisconsin
Ebbene, credo che l’intero verso cui dovremmo indirizzare lo sguardo sia la globalizzazione. Si tratta di un fenomeno iniziato molti decenni fa, forse già al termine del XIX secolo, quando, come ha spiegato lo storico dell’economia Jeffrey Williamson, incominciò la “convergenza” tra le economie delle due sponde dell’Atlantico (cfr. Jeffrey G. Williamson, Globalization, Convergence, and History, in The Journal of Economic History, n. 56, a. 1996, pp. 277-306). Secondo Williamson quella fu la prima globalizzazione, caratterizzata da crescita veloce, convergenza dei mercati delle merci, dei capitali e del lavoro. Prezzi, salari e interessi, in questa prima ondata, hanno cominciato a livellarsi e ad uniformarsi; insieme a tali fenomeni si è anche registrato uno spostamento di masse umane dall’Europa alle Americhe, fatto che ha contribuito fortemente all’integrazione dei salari tra i due continenti. L’esodo migratorio ha infatti sgonfiato il mercato del lavoro europeo, saturo e sovraffollato, spingendo i salari, fino a quel momento molto bassi, al rialzo; all’opposto negli Stati Uniti, che hanno assorbito gran parte dei migranti, il mercato del lavoro, fino a quel momento lacunoso, si è riempito, spingendo i salari, allora molto alti (furono infatti uno dei “fattori di attrazione” degli immigrati) verso il basso.



A questo periodo florido, durato fino alla prima guerra mondiale, ne è poi seguito uno di lenta crescita, de-globalizzazione e divergenza, coincidente con il periodo tra i due conflitti mondiali, la diffusione dei regimi totalitari (regimi che nazionalizzarono l’economia, o attraverso il dirigismo, o attraverso la pianificazione), la crisi e la segmentazione dei mercati, l’arretramento dei sistemi liberal-democratici e dell’economia di libero scambio. Questo secondo periodo culmina con la seconda  guerra mondiale.
 
Il simbolo dell'AFL
È fin troppo ovvio osservare (ma forse non è ovvio per tutti) che l’epoca della prima globalizzazione è stata caratterizzata da aspetti più o meno positivi dal punto di vista sociale, così come la successiva epoca di de-globalizzazione. Ad esempio, tra fine Ottocento e 1918 la classe operaia del mondo industrializzato ha ottenuto avanzamenti significativi, sia dal punto di vista economico (giornata lavorativa di 8 ore, salari in media più elevati, specie in Europa, rispetto al 1870, riconoscimento delle organizzazioni sindacali), sia dal punto di vista politico (estensione del diritto di voto). D’altro canto i conflitti non sono mancati: negli Stati Uniti d’America le proteste del sindacato AFL (American Federation of Labour) furono molto dure nel primo decennio del Novecento perché gli operai meglio retribuiti, e rappresentati da questa organizzazione, temevano la concorrenza dei lavoratori dequalificati provenienti dall’Europa e soprattutto di quelli immigrati dall’Asia, temevano cioè che la loro presenza sul suolo americano avrebbe fatto calare i loro salari, come poi accadde. Dopo la Grande guerra le proteste di questo sindacato raggiunsero il loro obiettivo: convincere il governo americano a controllare, ostacolare e ridurre l’immigrazione, fissando dei limiti all’ingresso di nuova forza lavoro negli States. Il primo Emergency Quota Act fu infatti del 1921: esso stabilì che sarebbe stato ammesso solo il 3%, di europei ed asiatici, rispetto al numero dei residenti della stessa nazionalità presenti negli Usa al censimento del 1910. Con tale formula gli immigrati accolti negli Stati Uniti passarono dagli oltre 800.000 del 1920, ai poco più di 300.000 del 1921-22. L’Immigration Act del 1924 ridusse la quota al 2%, dimezzando l’immigrazione annuale che nel biennio ’24-’25 si attestò sulle 165.000 unità.
Sciopero di minatori in Pennsylvania, 1897
Anche in Europa i conflitti non mancarono. Per restare alla sola Italia, fu proprio nel primo decennio del Novecento che il movimento operaio sperimentò le forme più organizzate e più radicali di lotta, come lo sciopero generale: il primo nel nostro paese si svolse nel 1904.






Sciopero generale a Napoli nel 1904


L'imperialismo europeo in Africa
L’aspetto forse più ambiguo della prima globalizzazione fu l’imperialismo europeo verso Africa e Asia. Fu una politica di potenza e di espansione territoriale diretta all’esterno del Vecchio mondo, alla ricerca di materie prime e soprattutto di mercati. Fu un fenomeno in espansione fino alla vigilia della prima guerra mondiale, quindi si consumò in pochi decenni; poi cominciò il fenomeno opposto, la decolonizzazione, che si concluse dopo il secondo conflitto mondiale. L’ambiguità dell’imperialismo sta nel fatto che da un lato fu provocato dalla globalizzazione, poiché la crescita economica da questa generata obbligò le nazioni europee, i cui confini erano ormai definiti e rispettati da tutti, a cercare un sbocco al surplus produttivo, visto che i rispettivi mercati interni erano insufficienti ad assorbirlo. Dall’altro lato, però, l’imperialismo creò mercati protetti e sottratti alla spinta della globalizzazione, ognuno governato da una nazione del Vecchio continente che così mise al riparo dai rischi della libera concorrenza una parte delle proprie risorse. Infine l’imperialismo contribuì a provocare conflitti tra le nazioni, cosicché la speranza coltivata dagli europei (da Bismarck, in particolare) di dirottare le tensioni verso l’esterno, si rivelò mal riposta, poiché gli attriti vi furono lo stesso e si riversarono nelle politiche estere seguite dagli Stati, rendendole diffidenti, preoccupate, arcigne e bellicose. Le ostilità avrebbero avuto modo di scontrarsi e mettersi alla prova nel corso della Grande guerra. La potente spinta verso l’omologazione, creata dall’integrazione economica, causò insomma un movimento opposto, attraverso le scelte che essa stessa suggeriva e imponeva.
 
Imperialismo europeo in Asia




dittature e democrazie alla vigilia della
seconda guerra mondiale
D’altro canto anche il successivo periodo di de-globalizzazione, come dicevo, non fu esente da aspetti negativi. Se da un lato le dittature (comunista, fascista e nazista) garantirono un decennio di relativa stabilità alle economie dei rispettivi paesi (dal 1920 al 1929), e attenuarono, attraverso la nazionalizzazione, gli effetti più distruttivi della crisi del 1929, dall’altro lato ciò fu possibile al prezzo di durissimi sacrifici da parte delle popolazioni che subirono quei regimi (si pensi ai morti provocati dal “comunismo di guerra” in Russia, durante la guerra civile; o a quelli provocati, sempre nell’Urss, dalla collettivizzazione delle campagne negli anni Trenta), e al prezzo della totale privazione della libertà politica e civile in tutt’e tre le forme di totalitarismo. Ma ciò che più occorre ricordare è che quei regimi poterono prosperare grazie alla guerra: negatori dell’economia liberista, avversari della globalizzazione da essi giudicata fattore di corruzione etnica, culturale, ideologica, contrari alla collaborazione con le democrazie occidentali, sostenitori di un’economia chiusa e di potenza, essi cercarono di far crescere la loro ricchezza nell’unico modo possibile ad uno stato contrario al libero commercio, ovvero ricorrendo a guerre di conquista. L’Urss, al termine della guerra civile (1917-1921), si era allargata verso oriente e aveva riconquistato parte dei territori ceduti nel 1918 con la pace di Brest-Litovsk; nel 1939, a seguito del patto di non aggressione con la Germania, conquistò parte della Polonia, i paesi baltici, la Finlandia, la Romania e la Mongolia. L’Italia tra 1931 e 1939 riconquistò la Libia, si impossessò dell’Etiopia e occupò l’Albania. La Germania nazista, infine, fece della conquista dello “spazio vitale” il principale obiettivo ideologico, messo in atto con il secondo conflitto mondiale. La de-globalizzazione, in definitiva, fu accompagnata da eventi catastrofici, poiché la fine dell’integrazione economica lasciò campo libero alle rivalità politiche e ideologiche che finirono per corrompere le relazioni tra gli stati e generarono la guerra. (1-continua)