Letture e libri consigliati
In questa pagina troverete indicazioni e suggerimenti di lettura. Si tratta di libri che ho letto, che mi hanno colpito per qualche ragione e che mi sento di consigliare ai miei "venticinque lettori". Nei limiti del possibile cercherò di presentare il libro con una breve scheda di recensione. Per lo più, come vedrete, si tratta di saggi, ma non trascurerò la letteratura, sebbene i miei gusti, in fatto di romanzi, siano piuttosto complicati e poco "di massa". Mano a mano che l'elenco si allungherà lo dividerò per argomenti, così da rendere più facile l'individuazione di un titolo o di un autore. Buona lettura!
Timothy Snyder, Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin, trad. it. Milano, Rizzoli, 2011, pp. 585.
Un libro complesso e di difficile lettura, poiché complicata e vasta è la vicenda che l'autore ricostruisce. La narrazione è densa di nomi, date, eventi. Tutto ciò che viene descritto è rigorosamente documentato. Emerge dalle pagine di Snyder una storia terribile, da non dimenticare (vedere in questo blog il post del 3 gennaio 2013). (3/1/2013).
Timothy Snyder, Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin, trad. it. Milano, Rizzoli, 2011, pp. 585.
Un libro complesso e di difficile lettura, poiché complicata e vasta è la vicenda che l'autore ricostruisce. La narrazione è densa di nomi, date, eventi. Tutto ciò che viene descritto è rigorosamente documentato. Emerge dalle pagine di Snyder una storia terribile, da non dimenticare (vedere in questo blog il post del 3 gennaio 2013). (3/1/2013).
Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, (2011), tr.it. Torino, Bollati
Boringhieri, 2012, pp. 150
Avete mai sentito
parlare di “decrescita felice”? E di “abbondanza frugale”? No? Se questi
ossimori vi colpiscono e vi incuriosiscono allora dovete leggere i libri di
Serge Latouche. Come questo che vi segnalo, il quale ha per sottotitolo Malintesi e controversie sulla decrescita.
Latouche non è affatto uno sprovveduto in fatto di economia: professore emerito
di Scienze economiche all’Università di Paris-sud ha scritto e pubblicato una
grande quantità di studi su concetti ardui come l’occidentalizzazione del
mondo, la globalizzazione e l’uniformazione planetaria, la razionalità delle tecno-scienze
e le conseguenze negative che esse avrebbero prodotto nel corso della storia
recente. Da qualche anno si è dedicato ad un nuovo tema da lui stesso
denominato “decrescita serena”, dal titolo del suo saggio del 2007: Breve trattato sulla decrescita serena (tr.
it Torino, Bollati Boringhieri, 2008). Lo studio con cui ha lanciato l’espressione
nella discussione economica è però del 2004: Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario
economico alla costruzione di una società alternativa (tr. it Torino,
Bollati Boringhieri, 2005). Secondo Latouche, che si ispira tra l’altro a Ivan
Illich (il filosofo che negli anni Settanta del XX secolo introdusse il
concetto di “convivialità cristiana” contrapposto a quello di “produttività
industriale”), se l’umanità si vuole salvare deve uscire definitivamente dal
mito del progresso e della crescita economica permanente. Deve rinunciare al
mercato, alla globalizzazione, all’alta tecnologia, al consumo di combustibili
fossili e in genere al consumo di energia se vuole ridurre la propria impronta
ecologica sul pianeta e consentire di vivere alle generazioni future. Se l’intera
umanità dovesse arrivare a consumare come oggi consuma la sola popolazione
occidentale, scrive Latouche, non basterebbero le risorse di tre pianeti come
la Terra per soddisfare tutti i bisogni. Perciò occorre rassegnarsi a sfrondare
le nostre attuali necessità, per lo più – secondo l’autore – costituite da “bisogni
inutili” (come la pubblicità, il turismo, i trasporti, l’industria
automobilistica, l’agrobusiness, le biotecnologie, le nanotecnologie, l’ingegneria
genetica, la telematica e via enumerando); infine occorre ritornare alle
produzioni agricole locali che hanno sempre garantito la biodiversità, usare il
riciclo dei materiali, imparare a riparare ciò che non funziona e così via. Una
società liberata dal mito della crescita del Pil e pronta ad accettare la
frugalità avrà risorse in abbondanza per vivere bene e in felicità (una
felicità “conviviale”, la chiama Latouche ricordando l’espressione di Illich);
al contrario una società traboccante di bisogni sarà sempre insoddisfatta dalla
scarsità delle risorse che il pianeta offrirà. Quella di Latouche è un’utopia
provocatoria (lo stesso autore lo riconosce), poiché da questo libro non si
capisce in che modo la decrescita riuscirà ad organizzare una società pacifica,
laboriosa e felice, come i seguaci della decrescita vorrebbero (ma il libro,
occorre ricordarlo, è più una difesa dalle critiche contro il tema dell’abbondanza
frugale che un manifesto di proposte operative); inoltre non mancano aspetti
assai discutibili tra le idee di Latouche: ad esempio l’affermazione che la
democrazia rappresentativa non basti più a governare i problemi ecologici del
mondo e che una “dittatura benevola” non sarebbe disprezzabile, almeno in una
prima fase di transizione, lascia francamente interdetti e fa riemergere nelle
nostre menti i fantasmi recenti delle dittature comuniste che hanno devastato l’Europa
orientale fino a qualche decennio fa. Tuttavia le questioni sollevate da
Latouche meritano la nostra attenzione: possiamo permetterci di crescere senza
limiti? Quanto combustile usiamo per coltivare ed esportare un chilo di
insalata? È davvero utile muoversi tutti negli stessi orari in città inquinate
ognuno chiuso nel proprio autoveicolo? Quanto sopporterà ancora il nostro
pianeta l’impronta ecologica della civiltà occidentale? (9/9/2012)
Jonathan Franzen, Libertà, (2010), tr. it. Torino,
Einaudi, 2011, pp. 622
“Quell’epoca che si è
finalmente conclusa […] in cui fingevamo che il rock fosse il flagello del
conformismo e del consumismo, anziché la loro ancella consacrata, quell’epoca
mi irritava molto. Credo che sia un bene, per la sincerità del rock e per il
paese in generale, che finalmente possiamo vedere Bob Dylan e Iggy Pop per ciò
che erano davvero: fabbricanti di Chiclets alla menta”. Sono le parole di Richard
Katz, l’eccentrica e anticonformista stella del rock protagonista, con Walter Berglund
e Patty Emerson, del romanzo Libertà.
L’autore è uno degli scrittori più letti negli Stati Uniti; questo romanzo,
attesissimo nel 2010, fu letto da Obama prima ancora che venisse pubblicato,
tanta era l’attesa per quest'opera annunciata da Franzen fin dall’anno precedente.
Cuore della narrazione è la vita di tre personaggi (appunto Richard, Walter e
Patty) dall’adolescenza (negli anni Settanta) all’età adulta (oggi). Le loro
vite si accavallano e si separano, si incontrano e si scontrano, si amano e si odiano;
sono piene di sogni e di grandi aspettative, ma soprattutto di errori e di obiettivi
mancati. Se è vero che siamo liberi – si chiedono i protagonisti - e che
viviamo nel luogo più libero del mondo (l’America), se è vero che essere liberi
significa far quello che vogliamo e che ci piace, come facciamo a sapere che
stiamo compiendo le scelte giuste per realizzare i nostri sogni? Come facciamo a
sapere che strada prendere? E se sbagliamo? Se commettiamo errori lungo questa
strada tali da allontanarci del tutto dalle nostre mete o addirittura tali da distruggerci?
Chi ci dirà che stiamo sbagliando, visto che siamo solo noi a decidere del
nostro destino? Chi ci dirà se la nostra scelta è giusta e moralmente sana,
oppure solo un altro dei tanti cedimenti conformistici a ciò che è più cool in quel momento? Il punto è che se
si è liberi è difficilissimo essere – come dice Joey, il figlio ribelle di Walter
– “un individuo concreto e definito, anziché una collezione di individui
potenziali e contraddittori”. Coinvolgente. (24/8/2012)
Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, (1993),
tr. it. Milano, Adelphi, 2003, pp. 242
“Non facciamo
fiasco, ma riusciamo meno bene del previsto. Non siamo drogati, eccediamo nell’uso
di sostanze stupefacenti. Non siamo paralizzati, ma affetti da tetraplegia. E la
nostra verecondia verbale si estende oltre la morte: un cadavere, esortava nel
1988 il New England Journal of Medicine,
andrebbe chiamato ‘persona non vivente’. Di conseguenza, un cadavere grasso
sarà una persona non vivente portatrice di adipe”. Sono solo alcuni degli
esempi, ridicoli ma veri, della moda del “politically
correct”. L’autore, scrittore, giornalista e critico d’arte, ha analizzato
il linguaggio utilizzato dalla stampa e dal sistema educativo degli Stati Uniti
d’America, individuandovi una vera e propria malattia sociale: il conformismo della
“correttezza politica”. Le ideologie politiche, la paura puritana che la
concretezza possa offendere, le mode culturali e infine il multiculturalismo hanno
creato un vero e proprio meccanismo di autocensura che esercita un ferreo controllo
sociale sulla cultura e sul linguaggio, producendo conformismo e appiattimento
del pensiero. Ogni ambiente ne è contagiato, ma in particolare lo è quello dell’istruzione
dove la smania del politicamente corretto sembra più diffusa tra i docenti che
tra gli studenti. La profezia orwelliana della “neolingua” sembra ormai
avverata…
Il libro di Hughes è
il frutto di una serie di conferenze tenute dall’autore nel 1992 presso la
Biblioteca Pubblica di New York; il fenomeno che vi viene descritto, perciò,
risale alla fine degli anni Ottanta, inizi anni Novanta. Una questione lontana,
quindi, che non ci riguarda più? Negli Usa sembra che oggi il fenomeno sia
sempre presente, sebbene in decrescita; ma in Europa? E, in particolare, in
Italia? Basterebbe leggere queste righe del libro di Hughes, riferite allo
stato del sistema dell’istruzione americano, per capire l’attualità della
questione per noi europei (e italiani, soprattutto): “stando all’ideologia
dominante [quella del politically correct,
appunto] è molto meglio rinunciare alla prospettiva dell’eccellenza che
rischiare di avvilire uno studente. Anziché spronare gli allievi a proporsi
obiettivi alti, gli insegnanti dedicano le proprie energie a far sì che i meno
capaci non si sentano inadeguati… spesso si avverte quasi un pregiudizio contro
gli allievi bravi”. (16/8/2012)
Emilio
Gentile, Italiani senza padri. Intervista
sul Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 177.
La maggior parte degli italiani “riconosce nel Risorgimento
un evento storico fondamentale”, ma “ne ignora il patrimonio di valori e di
idee nella vita civile”. Per questo sono spesso gli stessi italiani ad essere “i
principali nemici dell’Italia unita”. La rivolta antinazionale del partito di
Bossi, ad esempio, poggia su una premessa che non ha alcun fondamento: “che la
nazione italiana in realtà non esista e non sia mai esistita e che lo Stato
italiano non sia altro che una gabbia, costruita su una finzione che ora è
necessario finisca, a beneficio delle diverse popolazioni della penisola che
finalmente riconquistano la propria libertà”. Sono questi gli argomenti del
libro-intervista, curato dalla giornalista Simonetta Fiori, scritto dallo storico
italiano Emilio Gentile, uno dei discepoli di Renzo De Felice, in occasione
delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità. Perché per tanto tempo gli
italiani hanno denigrato le proprie origini? Che conseguenze ha avuto questo
comportamento sulla coscienza civile degli abitanti della penisola? Perché
ancora oggi sono molti gli italiani a non riconoscersi nello Stato nazionale e
a non accordare ad esso la giusta solidarietà che ogni cittadino delle nazioni
moderne in genere è pronto a concedere alle proprie istituzioni? Un libro
breve, ma avvincente, leggibile e comprensibile da chiunque. (14/8/2012)
Zygmunt
Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi
dalla tirannia dell’effimero, (2008), tr. it. Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 102.
"La vita dedita al consumo – scrive Bauman – è una vita di
rapido apprendimento e fulmineo oblio”. Non riguarda l’acquisto e il possesso, “riguarda,
prima di tutto e soprattutto, l’essere in movimento”. La rapidità con cui i
bisogni e i desideri di consumo si susseguono e quella con cui i
consumi di ieri appaiono vecchi e vengono ridicolizzati rendono impossibile
fissare nel tempo le priorità dell’esistenza: questa sembra avere oggi un'unica
legge, quella della rapidità del consumo. I nuovi bisogni, perciò, divengono
smodatamente importanti per pochissimo tempo, per poi venire abbandonati e dimenticati
appena soddisfatti. Non c’è tempo per pensare, non c’è tempo per riflettere,
non c’è tempo neppure per comunicare veramente, per parlare, per usare le
parole. “Ci sono forti indizi che fanno pensare che stiamo creando una società
in cui risulta quasi impossibile pensare qualcosa di più di una frase
smozzicata”, afferma uno dei sociologi citati da Bauman. La “puntillizzazione”
del tempo non solo esclude la storia dall’orizzonte culturale del mondo
contemporaneo, ma rende persino impossibile il fissarsi delle identità
individuali. Formare il cittadino, educarlo, informarlo: questi i possibili
antidoti per “salvarsi dall’effimero”. Quella di Bauman è una valutazione
durissima della nostra società: forse Bauman è meno convincente nelle soluzioni
proposte, ma la sua analisi è persuasiva e coinvolgente. Il libro, brevissimo
come il tempo che descrive, si legge in due ore, ma lascia un’enorme quantità
di spunti di riflessione sulla fondatezza e inconsistenza delle nostre società.
(14/8/2012)
Victor
Zaslavsky, Pulizia di classe. Il massacro
di Katyn, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 134
Nell’aprile 1940 i sovietici fucilarono a Katyn, nella zona
della Polonia da loro occupata, circa 15000 polacchi, per lo più ufficiali
dell’esercito, membri della classe dirigente polacca e loro familiari. Insomma
cercarono di decapitare la possibile resistenza militare e civile della Polonia,
attuando una meticolosa “pulizia di classe” che non è stata meno terribile
della “pulizia etnica”attuata dal nazismo. Lo strazio della Polonia fu tra le
più drammatiche vicende patite da un popolo durante la seconda mondiale: ad
ovest occupata dall’esercito nazista, ad est da quello sovietico. Il massacro
di Katyn venne scoperto già nel 1941 dai tedeschi quando questi, a loro volta,
attaccarono l’Urss. Da quel momento cominciò una guerra di propaganda e di
disinformazione: i tedeschi accusarono i russi della strage, i sovietici
accusarono i tedeschi. A guerra in corso tra le potenze occidentali non vi era
nessuno disposto a credere nella versione nazista della vicenda, perciò la
Germania venne considerata l’unica responsabile della strage. Dopo il conflitto,
l’Urss godette della favorevole propaganda dei Partiti comunisti occidentali,
ma anche delle connivenze e delle reticenze dei governi democratici, così la
menzogna continuò ad essere sostenuta fino al termine del XX secolo. Solo dopo
la fine dell’Urss e grazie al libero accesso agli archivi russi da parte degli
studiosi, è stato possibile ricostruire l’intera vicenda e smontare, come
scrive Zaslavsky, “le grossolane menzogne e falsificazioni sovietiche sul caso
Katyn”, ma anche combattere, con la forza dei documenti e della verità, gli
imbarazzati silenzi della politica occidentale, specie dei governi inglesi che,
con la loro omertà, hanno contribuito a perpetuare la bugia per 50 anni. (7/8/2012)
Martha C.
Nussbaum, Non per profitto. Perché le
democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, (2010), tr. it. Bologna,
Il Mulino, 2011, pp. 160
Riusciranno a sopravvivere le democrazie del mondo
occidentale senza tutelare e sostenere lo studio delle discipline umanistiche?
È sufficiente, per il mantenimento delle libertà, diffondere e studiare
soltanto conoscenze economiche e tecniche? Lo studio della letteratura,
dell’arte, della filosofia servono più di queste per la difesa della
tolleranza, della libertà di espressione e, in ultima analisi, della
democrazia? Secondo Martha Nussbaum, docente di Law and Ethics presso l’Università di Chicago, l’imperativo della
crescita economica e del sapere tecnologico hanno provocato in tutto il mondo
una crisi senza precedenti dell’istruzione umanistica che avrà prima o poi
conseguenze devastanti per il mantenimento dei sistemi liberal-democratici. La
dittatura del Pil e delle conoscenze tecniche prima o poi finirà per uccidere
libertà e democrazia; se intendiamo salvarle dobbiamo diffondere
nell’insegnamento il modello dialogico-socratico, e difendere in tal modo
l’autonomia del giudizio, la forza dell’immaginazione, l’indipendenza
dell’individuo, la libertà di pensiero e di parola. (7/8/2012)
Zygmunt
Bauman, Consumo, dunque sono, (2007),
tr. it. Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 199
Può essere felice una società di consumatori il cui unico
scopo esistenziale è l’affermazione della propria soggettività attraverso il
consumo? “Il consumismo – afferma Bauman – associa la felicità non tanto alla
soddisfazione dei bisogni (come tendono a far credere le sue ‘credenziali
ufficiali’), ma piuttosto alla costante crescita della quantità e
dell’intensità dei desideri, il che implica a sua volta il rapido utilizzo e la
rapida sostituzione degli oggetti con cui si pensa e si spera di soddisfare quei
desideri”. Per questo la società dei consumatori tende a ridefinire il
significato di tempo: conta solo ciò che accade ora e qui, il tempo diventa
“puntiforme”, la vita e la cultura “frettolose” (hurried culture), il passato del tutto “esautorato”. “La sindrome
culturale consumistica - scrive Bauman - consiste soprattutto nell’enfatica
negazione della virtù del rinvio, e dell’opportunità e desiderabilità di
ritardare la soddisfazione”. La spietata e acuta analisi del sociologo polacco,
inventore dell’espressione “modernità liquida”, mette in luce i caratteri di un
mondo che, illudendoci di essere liberi e felici, produce nuove e più subdole
disuguaglianze, nuove e più dolorose nevrosi. Da leggere tutto d’un fiato. (7/8/2012)
Ernesto Galli
della Loggia, Aldo Schiavone, Pensare
l’Italia, Torino, Einaudi, 2011, pp. 144
Due studiosi italiani, accomunati dalla passione per la
storia ma diversissimi per formazione, convinzioni e temperamento, dialogano
sulle origini e sul destino della nostra nazione dopo la conclusione delle
celebrazioni per l’Unità d’Italia. Perché è stata così tardiva la nostra
unificazione? E che conseguenze ha avuto questo ritardo sulla nostra storia
successiva? Come sono state affrontate dall’Italia le “lacerazioni del
Novecento”? L’attuale crisi prodotta dalla globalizzazione e l’incalzare di
forze che tendono a svuotare di potere e di senso le istituzioni nazionali di
tutti i paesi probabilmente non lasciano più uno spazio e un futuro all’Italia.
Le nostre antiche “fragilità”, inoltre, ci condannano ad un ruolo di secondo
piano nella sfera delle relazioni internazionali. Perciò oggi più che mai è
evidente il rischio di un declino della nazione e della rottura definitiva
dell’unità, del dissolvimento completo dei vincoli che ci tengono insieme:
“finis Italiae?”, si chiedono gli autori. Se vogliamo salvare questi vincoli,
dobbiamo capire come sono nati e cosa in essi non ha funzionato, dobbiamo
valutare cosa ha significato e cosa significa per noi italiani l’espressione
“identità nazionale”. (7/8/2012)
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